Il “grande vecchio” dell’architettura del ’900

di Fabio Massi

Ha segnato per quasi un secolo la costruzione del paesaggio americano, contribuendo a lanciare movimenti e protagonisti destinati a diffondere nel mondo l’influenza culturale a stelle e strisce anche nel campo dell’architettura. Philip Johnson si è spento lo scorso gennaio all’età di 99 anni nella sua straordinaria “casa di vetro”, la Glass House a New Canaan nel Connecticut, costruita nel 1949 e divenuta subito un’icona della modernità provocatoria. Nato nel 1906 a Cleveland, in Ohio, fu studente di filosofia e letteratura tedesca ad Harvard, dove si laureò come architetto nel 1943 sotto la guida di Marcel Breuer. Si recò in Europa per la sua formazione giovanile ed ebbe l’occasione di conoscere e apprezzare Ludwig Mies van der Rohe, di cui divenne in seguito allievo. Nel 1932, insieme al suo compagno di studi Henry-Russell Hitchcock, organizzò al Museum of Modern Art di New York (di cui fu, a soli 26 anni, direttore del dipartimento architettura) un’esposizione sull’architettura moderna, l’International Style, nella quale diede spazio a numerosi progettisti e ingegneri di varie nazionalità con lo scopo di aprire le porte della cultura americana al modernismo europeo.

Dalla metà degli anni ’50 si dedicò alla realizzazione di diversi grattacieli, il più celebre dei quali è senz’altro il Seagram Building di New York. Ma Johnson è noto al grande pubblico soprattutto per le opere post-moderne che firmò a partire dagli anni ’70, come l’AT&T Building di New York, il PPG Building di Pittsburgh, il Municipio di Celebration in Florida, la Crystal Cathedral di Garden Grove in California e la torre di 56 piani di granito rosa della RepublicBank di Houston. Nel 1979 fu insignito del più importante riconoscimento per un architetto: il Premio Pritzker. A causa della sua mescolanza stilistica, da più parti fu accusato di essere un esperto delle tendenze alla moda, piuttosto che un architetto dotato di una personale concezione stilistica, ma è innegabile che non si può fare la storia della cultura americana del XX secolo senza riservare ampio spazio all’opera di uno dei suoi più grandi protagonisti.