Dirce: un progetto per le Pmi

di Fabio Massi

Stimolare la propensione alla ricerca e all’innovazione delle Pmi italiane, soprattutto meridionali, nonché radicare sul territorio forme stabili di collaborazione tra soggetti economici e sistema delle conoscenze scientifico-tecnologiche è stato l’obiettivo del progetto operativo Dirce del Miur.

La capacità di innovare è sempre stato un requisito di grande importanza per il successo di un’impresa, ma oggi rappresenta un fattore imprescindibile se si vuole essere competitivi in un mercato internazionale che chiede continuamente maggiore adattabilità, versatilità e flessibilità. Stimolare la propensione alla ricerca e all’innovazione delle Pmi italiane, soprattutto meridionali, nonché radicare sul territorio forme stabili di collaborazione tra soggetti economici e sistema delle conoscenze scientifico-tecnologiche è stato l’obiettivo principale del progetto Dirce, acronimo di “Diffusione dell’Innovazione e della Ricerca per la Competitività Economica”, promosso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, e coordinato dall’Istituto Guglielmo Tagliacarne con la partecipazione della rete delle 25 Camere di Commercio del Mezzogiorno.

Il progetto, i cui lavori sono durati due anni, prevedeva la realizzazione di 350 audit scientifico-tecnologici in favore di altrettante imprese manifatturiere e dei servizi, appartenenti a sette comparti produttivi e operanti in 25 aree territoriali del Meridione. Tutte le Pmi coinvolte, la cui partecipazione è stata volontaria attraverso l’iscrizione in un apposito albo, hanno potuto usufruire di un servizio di alta consulenza strategica e di assistenza tecnica volto a monitorare il patrimonio tecnologico aziendale, valutando fabbisogni e potenzialità di innovazione e individuando processi interni di sviluppo e di ammodernamento adatti a incrementare la competitività dell’impresa. «Aiutare l’imprenditore a collocarsi ai blocchi di partenza del proprio processo di sviluppo. È lo slogan che riassume il lavoro che abbiamo svolto – afferma Alfonso Feleppa, direttore dell’Istituto Tagliacarne – i cui elementi portanti sono stati la particolare attenzione alle specificità delle imprese, la capacità di raggiungere le aziende nel territorio, la credibilità di tutti i soggetti impegnati, il raccordo qualificato tra sistema produttivo e competenze universitarie e tecnico-scientifiche.

Il progetto ha fatto registrare un enorme gradimento delle imprese coinvolte, il 93% delle quali auspica che il Dirce possa trasformarsi in un sistema, mentre il 91% è disposto a pagare affinché venga ripetuto. Attraverso questa esperienza, oltre a creare un clima di fiducia tra le Pmi, abbiamo detto loro che è possibile favorire il ruolo di organismi di interfaccia impresa/sistema tecnico-scientifico, e strutturare un servizio per la formazione continua finalizzato anche all’inserimento nell’impresa di personale qualificato». Dei 350 audit realizzati il 47% ha riguardato imprese dedicate all’agroindustria, il 14% al legno e all’arredamento, il 12% al tessile e all’abbigliamento, l’8% all’informatica, all’elettronica e agli apparecchi di precisione, l’8% al metalmeccanico, il 6% ai servizi di trasporto, il 5% alla chimica leggera e alla fabbricazione di materie gommose. Per ciò che concerne la ripartizione geografica delle aziende coinvolte, la maggioranza delle quali presenta un numero di dipendenti compreso tra 10 e 49, ben 92 sono attive in Sicilia, 82 in Puglia, 75 in Campania, 36 in Sardegna, 33 in Basilicata e 32 in Calabria.

La percentuale di addetti donna sul totale dei dipendenti delle imprese si aggira sul 30%, ma tra i singoli settori produttivi ci sono notevoli differenze: la quota maggiore di personale femminile è nel tessile e nell’abbigliamento con oltre il 70%, mentre le concentrazioni più basse si registrano nei servizi di trasporto con circa il 5% e nel metalmeccanico con quasi il 7%. Tra tutte le aziende che hanno partecipato al progetto la forma societaria più diffusa è quella a responsabilità limitata, mentre l’imprenditore ha un’età media di 45 anni, con un diploma di scuola superiore, con più di due decenni di esperienza professionale alle spalle e nel 68% dei casi è originario dello stesso luogo in cui opera la sua azienda. Quest’ultimo dato, se da una parte evidenzia l’importanza del radicamento territoriale delle risorse imprenditoriali, dall’altra ne sottolinea la limitata mobilità e la tendenza a rimanere concentrate in ambiti prettamente locali.

Attraverso gli audit il progetto Dirce ha sintetizzato i modelli di comportamento strategico delle imprese coinvolte in quattro tipologie principali: “imprenditore accentratore”, con un marcato accentramento dell’attività gestionale dell’imprenditore, un moderato grado di internazionalizzazione e uno scarso uso di fonti pubbliche per l’acquisizione di conoscenza innovativa; “imprenditore integratore”, in cui l’imprenditore rimane il fattore determinante nel promuovere il processo innovativo, ma l’impresa può contare sul contributo di altre figure interne nell’individuazione di opportunità innovative e modalità di soluzione di problemi tecnici; “innovatore adattativo sistemico”, in cui il cambiamento tecnologico è prevalentemente guidato dalle richieste avanzate dal mercato finale e in cui il modello organizzativo è caratterizzato dalla presenza di risorse umane dedicate alla progettazione di nuovi prodotti, insieme a relazioni non episodiche con la ricerca pubblica e universitaria; “innovatore ad alto contenuto tecnologico”, in cui le competenze tecniche dell’imprenditore svolgono un ruolo determinante e l’innovazione è fortemente customizzata sulla base delle esigenze di specifici clienti, oltre a un frequente legame con il sistema pubblico della ricerca.

La maggior parte delle imprese coinvolte, negli ultimi quattro anni, ha orientato la propria attività innovativa in larga misura verso cambiamenti incrementali nelle metodologie di processo produttivo, attraverso l’acquisizione di nuove soluzioni tecnologiche sviluppate all’esterno dell’impresa. Il diretto miglioramento delle caratteristiche qualitative o di design dei prodotti, invece, si colloca in una posizione secondaria: il 41% delle Pmi, infatti, dichiara di non aver effettuato alcuna innovazione in questo senso, palesando una tendenza ad adottare strategie imitative o di modelli di business già consolidati nei mercati di riferimento. È interessante soffermarsi sui fattori che hanno ostacolato il processo innovativo delle imprese negli ultimi anni. Dall’analisi emerge chiaramente che quasi il 50% del campione ritiene che il freno più rilevante sia legato ai costi delle innovazioni piuttosto che alla mancanza di personale qualificato. Ciò è dovuto soprattutto alle difficoltà di accesso al mercato creditizio da parte delle Pmi, per cui l’investimento in innovazione risulta penalizzato a fronte di una limitata disponibilità di capitale.

Il 21% delle imprese considera lo scarso sostegno finanziario all’attività innovativa da parte degli enti pubblici come un ostacolo estremamente rilevante: il 95%, nel quinquennio 1998-2002, non ha ricevuto alcun cofinanziamento per la ricerca e sviluppo. Sempre con riferimento ai motivi che hanno ostacolato i processi innovativi, oltre il 49% valuta del tutto ininfluenti i problemi di ordine organizzativo, il 50,3% non considera rilevanti le carenze di informazioni sull’offerta tecnologica, mentre per il 42% il fattore rischio è un elemento poco influente, a conferma della mancanza di una concreta attività di ricerca e sviluppo interna all’azienda. Se si esclude il settore dell’informatica e dell’elettronica, infatti, il 99% delle altre imprese in oggetto non svolge alcuna ricerca di base all’interno della propria struttura. L’indicazione, da parte degli imprenditori campione, di quali figure professionali occorrerebbero per supportare il processo innovativo futuro della propria azienda evidenzia una necessità primaria verso il rafforzamento delle conoscenze dei mercati di riferimento e, in generale, dell’attività di distribuzione e commercializzazione. Oltre il 48%, infatti, reputa importante il coinvolgimento di esperti di marketing, mentre per il 28% sarebbero necessari esperti di produzione e di settore.

Un aspetto da sottolineare in questo insieme di preferenze è il dato relativo al fabbisogno di figure strettamente manageriali, considerato rilevante soltanto dal 13% delle Pmi, a dimostrazione delle ridotte dimensioni delle aziende e del marcato controllo che l’imprenditore esercita nella maggior parte dei casi. Un’ulteriore conferma ci viene dai dati inerenti le fonti principali di idee innovative: per il 45% dei casi l’idea nasce dall’imprenditore, nel 16,7% da proposte del cliente, mentre il resto delle risorse umane operanti all’interno dell’azienda incide soltanto per l’11,5%.

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