L’ultimo divino

di Fabio Massi

Nel 1946 ammise alla radio di essere un uomo e non un dio. Così il controverso Hirohito, imperatore del Giappone, pose fine a un’era.

«Sopportare l’insopportabile e tollerare l’intollerabile». Quando udirono queste parole echeggiare alla radio a mezzogiorno in punto di quel 15 agosto 1945, milioni di giapponesi rimasero a dir poco scioccati e increduli: il discendente diretto della dea del sole Amaterasu, il 124° “sovrano celeste” (tennō) salito sul Trono del Crisantemo, Sua Maestà l’imperatore Hirohito stava diffondendo la sua voce divina tra i propri sudditi, informandoli che «la situazione bellica non si era sviluppata necessariamente a vantaggio del Giappone» e che l’impero (sul quale pochi giorni prima i bombardieri americani avevano sganciato due bombe atomiche) aveva accettato i termini per una resa incondizionata.

Il discorso radiofonico registrato dall’imperatore Hirohito, detto “radiotrasmissione della voce del Gioiello” (Gyokuon hōsō), fu un vero shock per i giapponesi, non soltanto per il suo drammatico contenuto, ma soprattutto perché era la prima volta che ascoltavano la viva voce del dio vivente (arahitogami), per il quale ogni suddito era pronto a donare la propria esistenza in qualunque momento. In realtà moltissimi giapponesi, militari e civili, non compresero nemmeno bene ciò che l’imperatore aveva detto poiché il tennō aveva usato il lessico raffinato e arcaico di corte, ben diverso dal giapponese corrente parlato nelle strade. Nonostante la lontananza di quella figura dal mondo reale, quando fu chiaro che era proprio il sovrano a parlare decine di giapponesi preferirono togliersi la vita. Il picco dei suicidi si raggiunse però qualche mese più tardi, esattamente il 1° gennaio 1946, quando – su richiesta delle forze americane di occupazione guidate dal generale Douglas MacArthur – Hirohito firmò e diffuse alla nazione la “Dichiarazione della natura umana” (Ningen sengen), con la quale negava in maniera ufficiale la sua origine divina, smentendo la superiorità del popolo nipponico nei confronti delle altre nazioni. La costituzione giapponese, imposta dagli americani nel 1947, assestò il colpo di grazia ai requisiti divini del tennō, riducendo la sua figura a mero simbolo dello Stato e restringendo le sue funzioni a doveri puramente cerimoniali. Ma prima, come stavano le cose?

Intere generazioni cresciute a riso e culto dell’imperatore vissero attonite a uno stravolgimento senza precedenti, che metteva in discussione tutto ciò in cui avevano creduto fino ad allora. Non bastava il disonore per una sconfitta umiliante, né il dramma di decine di migliaia di vittime spazzate via dalle due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, né l’onta di vedere i “barbari” a stelle e strisce calpestare il sacro suolo dell’antico regno di Yamato (la dinastia di Hirohito): il tennō, non più celeste, doveva «la sua posizione alla volontà del popolo nel quale risiede il potere sovrano». Così recitava l’articolo 1 della nuova Costituzione. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, con la cosiddetta Restaurazione Meiji e la fine dello shogunato, i giapponesi, dopo un periodo di smisurato entusiasmo per tutto ciò che era occidentale, avevano virato verso un nazionalismo esasperato, alimentato dalla casta militare, che avrebbe di portato il Paese alla disfatta nella seconda guerra mondiale. Alla base di questo rinnovato amor di patria (aikoku) c’era un programma di indottrinamento politico che fece dell’imperatore il centro dell’unità nazionale, attraverso l’utilizzo della fede shintoista, in quanto era stato proprio lo Shintoismo a teorizzare l’autorità del tennō attribuendogli origine divina e funzioni sacerdotali. Negli anni ’30 il carattere divino dell’imperatore fu alla base della teoria sulla superiorità della razza giapponese e al sovrano fu affidata la missione sacra di governare gli altri popoli dell’Asia, che si concretizzò negli orrori dell’occupazione nipponica sul continente.

Hirohito – rinchiuso nella prigione dorata della residenza imperiale a Tokyo – sembrava vivere come in un tempio. Del resto, era considerato il continuatore di una tradizione sciamanica antica di millenni, cui spettava il privilegio di officiare i maggiori riti shintoisti di origine agreste, comprese le cerimonie legate all’insediamento al trono come la misteriosa e (al contrario delle incoronazioni occidentali) privatissima Daijōsai (“Festa della grande offerta di cibo”), durante la quale l’imperatore, all’interno dei tre santuari shintoisti eretti per l’occasione nel Palazzo Imperiale di Tokyo, offre riso allo spirito del suo mitico antenato, la dea Amaterasu. Ma chi c’era dietro quella maschera dei riti imperiali? Un monarca divino con un potere assoluto, un criminale di guerra o qualcos’altro? Certamente è una tra le figure più discusse e controverse del Novecento. Descritto come un uomo timido e solitario – la sua vera passione era la biologia marina – accettò in maniera piuttosto passiva l’ascesa dei militari che negli anni ’30 pervasero di spirito ultranazionalista il suo regno. Non è chiaro quale sia stato il suo effettivo potere nel periodo del colonialismo nipponico né quali furono le sue responsabilità nei crimini di guerra commessi dall’esercito in suo nome in Manciuria e soprattutto a Nanchino: 6 settimane di massacri da parte dell’esercito imperiale nella capitale della Cina occupata, che nell’inverno 1937-38 fecero (ma le cifre sono discordanti) fra 200 e 400 mila vittime.

«In un messaggio scritto circa sei mesi dopo la fine della guerra del Pacifico e indirizzato al re d’Inghilterra Giorgio VI, emerso nel 1988 dagli archivi del governo inglese, l’imperatore affermò di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare la guerra» spiega Daniela De Palma, storica del Giappone contemporaneo. «Scrisse anche di rammaricarsi per la perdita di vite e di beni: “Io apposi la mia firma alla dichiarazione di guerra con straziante dispiacere, dicendo ripetutamente al generale Tōjō (l’allora primo ministro, ndr) che sarei stato obbligato a farlo con molto rammarico e riluttanza”. Hirohito dichiarava, in pratica, di essere stato costretto a mettere la firma alla dichiarazione di guerra, perché la consuetudine politica giapponese prevedeva che il tennō si limitasse a ratificare decisioni già prese dai ministri. L’atto dell’imperatore seguiva sempre l’accordo già raggiunto dal governo e Hirohito avrebbe dovuto firmare anche se fosse stato contrario».

Alcuni storici non concordano però con questa visione di un imperatore senza poteri. Almeno per quanto riguarda la partecipazione al secondo conflitto mondiale. Lo accusano di essere stato pienamente in grado di decidere, come dimostrò poi con la firma della resa nel 1945. «Hirohito poté autonomamente accettare la resa incondizionata solo perché non c’era accordo fra i ministri» obietta però l’esperta. «All’inizio della guerra, invece, il loro consenso era stato unanime. Il fatto è che, nel sistema imperiale nipponico, la responsabilità politica non era solo nelle mani dell’imperatore, che si rimetteva alle decisioni della maggioranza, né solo in quelle dei vertici militari, che l’attribuivano all’imperatore, determinando così una situazione di irresponsabilità (detta musekinin)».

Nel settembre del 1945, presentandosi davanti al generale MacArthur, Hirohito si dichiarò comunque unico responsabile degli eventi bellici, cercando di far cadere su di sé la punizione degli alleati. «In realtà stava interpretando le sue funzioni sacerdotali di intercessione per la nazione quando disse: “Io vengo davanti a Lei, generale MacArthur, per offrire me stesso al giudizio delle Potenze che Lei rappresenta, come colui che porta l’esclusiva responsabilità per ogni decisione politica e militare adottata e per ogni azione compiuta dal mio popolo nella condotta della guerra”» dice la De Palma. Nonostante questa “confessione”, Hirohito riuscì a evitare un processo e una probabile condanna a morte. Rimase al suo posto per altri 44 anni, accompagnando l’ultimo impero ancora esistente al mondo verso uno sviluppo economico senza precedenti: in un certo senso, un miracolo divino.

1868, il ritorno degli imperatori
Nel 1868, con la Restaurazione Meiji (dal nome dell’imperatore sul trono dal 1852 al 1912, nonno di Hirohito), il Giappone si avviava a diventare una nazione moderna, che nel 1947 si trasformò in monarchia costituzionale. Nonostante esistesse da sempre (il primo leggendario imperatore, Jimmu, sarebbe del VII secolo a.C.), la figura imperiale tornava solo allora ad appropriarsi del potere effettivo, seppure esercitato attraverso influenti intermediari. Nei precedenti sette secoli, infatti, dominati dai clan dei signori della guerra, il tennō era stato “parcheggiato” nel ruolo sacrale di simbolo della nazione, massimo sacerdote dello Shintoismo e intermediario tra le divinità ancestrali e il popolo. Mentre il vero potere era nelle mani di un governo militare (bakufu) guidato dallo shōgun (“generalissimo”) che esercitava il suo potere per delega imperiale. Durante il periodo dello shogunato i due centri di potere rimasero separati anche fisicamente: la corte imperiale era a Kyoto, mentre i vertici del comando militare vagarono in varie città, l’ultima delle quali, a partire dal 1603, fu Edo, l’odierna Tokyo. E proprio a Edo, nel 1868, l’imperatore Meiji trasferì la sua residenza, a rimarcare la fine dell’era degli shōgun.

Shintoismo di Stato
La spada, il gioiello e lo specchio. Con questi tre tesori sacri viene legittimata – praticamente da sempre – l’ascesa al trono di ogni nuovo imperatore in Giappone, tre oggetti la cui origine si perde nelle nebbie della mitologia shintoista, abitata da migliaia di kami (“divinità”) della natura, da creature fantastiche e da imperatori leggendari. Una religione indigena dell’arcipelago giapponese (detta Shintō, ovvero “Via degli dei”) che dovette affrontare la concorrenza del buddhismo e che solo nell’Ottocento si affermò come fede di Stato. L’atmosfera panteista dello shintoismo fu sfruttata al massimo dal cosiddetto Shintoismo di Stato (Kokka Shintō) imposto dagli ultimi anni del XIX secolo fino al 1945. Attraverso un cocktail composto da una parte di tradizione, una parte di mitologia e una parte di culto del tennō, infatti, i governi di quel periodo riuscirono a inebriare il popolo nipponico con un senso fortissimo di identità nazionale e culturale. Il mito della discendenza divina della famiglia imperiale e quello della superiorità del Giappone sugli altri popoli – messi al centro dello Shintoismo di Stato – furono l’alibi perfetto per l’espansionismo di quegli anni.