Dallo shunga al manga

di Fabio Massi

Tra geishe coltissime, monaci gay e piovre erotiche, il Giappone è da sempre un Paese di “stranezze”. Con conseguenze imprevedibili: i giovani di oggi non fanno quasi più sesso.

Un Paese pieno di contraddizioni. Si fa fatica a credere che nella stessa società possano coesistere il pudore di baciarsi o scambiarsi effusioni in pubblico – anche tra giovani – e la naturalezza con la quale in metropolitana si sfogliano manga erotici e pornografici. E che dire del legislatore che proibisce la prostituzione ma non quel bizzarro e lussurioso universo fatto di centri per massaggi particolari e club erotici a tema che scalda le notti delle grandi città? E qual è il senso di censurare le immagini dei genitali sulle riviste e sui fumetti porno quando in alcuni negozi specializzati è possibile acquistare la biancheria intima usata delle studentesse?

Per fare un minimo di luce sulla (per noi) spiazzante sessualità dei giapponesi moderni è necessario curiosare nella loro storia e nelle loro tradizioni. A cominciare dal più antico documento letterario del Sol Levante: il Kojiki (“Cronache degli antichi avvenimenti”). Scritto nel 712 d.C. , narra le origini del Giappone e della famiglia imperiale, e inizia con il racconto mitologico della creazione del Cielo e della Terra. I protagonisti sono due divinità shintoiste (kami), fratello e sorella: Izanagi (“Colui che invita”) e Izanami (“Colei che invita”). La coppia, dopo aver creato la prima isola del Giappone immergendo la “Spada gioiello del Cielo” nell’oceano, decide di unirsi sessualmente dando vita ad altre otto grandi isole dell’arcipelago nipponico insieme a molte divinità.

Nel mito della creazione del Giappone, perciò, diversamente da quanto accade nella tradizione giudaico-cristiana, si parla di un esplicito rapporto sessuale – per di più tra fratello e sorella – un atto per niente peccaminoso o negativo nella visione shintoista. Lo Shintoismo, infatti, non impone dogmi o comandamenti perentori, ma incoraggia ad accettare con impegno ed entusiasmo la vita e tutte le sue manifestazioni: il lavoro, il divertimento e ogni altra attività umana. Sesso compreso. Risultato: nessun atteggiamento puritano verso i piaceri della carne e nessun tabù, nemmeno per l’omosessualità.

Secondo una leggenda popolare, fu il monaco buddhista Kukai – fondatore della scuola Shingon nel IX secolo – a introdurre nel clero il sesso omosessuale, in particolare la pederastia: i giovanissimi accoliti (chigo) erano al centro delle attenzioni dei monaci con i quali instauravano relazioni molto intime, fino al raggiungimento dell’età adulta (qualcosa del genere accadeva nell’antica Grecia fra allievo e pedagogo). In epoca feudale le pratiche sessuali tra uomini rappresentavano un cardine nella vita della casta guerriera dei samurai. Secondo la tradizione definita shudō – da wakashudō (la “Via degli adolescenti”) – i giovani militari trascorrevano diversi anni a stretto contatto con uomini più grandi, che insegnavano loro le tecniche di combattimento, ma di cui diventavano spesso amanti ufficiali, con l’obbligo reciproco di assoluta fedeltà.

Nel Giappone antico non mancava neppure lo spazio per il sesso a pagamento. Si hanno notizie di bordelli con prostitute nel XV secolo, ma fu con il lungo potere degli shogun nel periodo Tokugawa (1600-1868) e con l’ascesa della classe dei mercanti (chōnin) che la prostituzione viene organizzata e circoscritta in determinate aree, i cosiddetti “quartieri di piacere” (yūkaku). E ogni grande città aveva la sua zona “a luci rosse”: lo Yoshiwara di Edo (l’odierna Tokyo), lo Shimabara di Kyoto e lo Shinmachi di Osaka erano i tre distretti più famosi, dove le yūjo (“donne di piacere”) offrivano le proprie grazie. Tra le prostitute vigeva una netta gerarchia che rispecchiava il ceto sociale, la preparazione culturale e il talento: dal rango più basso delle cosiddette hashi fino a quello più alto delle oiran e soprattutto delle tayū, che avevano il privilegio di rifiutare un cliente poco gradito e di avere al seguito due giovani assistenti (kamuro).

L’universo gaudente e sfrenato che caratterizzava i quartieri di piacere – costituiti non soltanto da bordelli, ma anche da locande, case da tè, teatri, botteghe di cosmetici, di stoffe, di monili e di acconciature – diventò il tema preferito degli artisti di ukiyo-e (“pitture del mondo fluttuante”), le stampe xilografiche in serie destinate a un vasto pubblico, sia maschile sia femminile. Una variante “spinta” di queste opere è rappresentata dagli shunga (“immagini della primavera”) che ritraggono esplicitamente scene di sesso di ogni tipo. Queste pitture, infatti, che potevano essere vendute in fogli singoli o raccolti in libri (enpon), immortalano nei minimi dettagli gli incontri sessuali della gente comune (mercanti, prostitute, artigiani, contadini) con l’ausilio di alcuni accorgimenti simbolici, come le dimensioni volutamente esagerate dei genitali. Probabilmente, con questo artificio gli autori volevano porre l’accento sull’importanza delle pulsioni primarie umane, come il desiderio e il piacere sessuale, che nei doveri quotidiani della vita si è costretti a celare.

Altra caratteristica delle immagini shunga è che gli amanti non sono mai del tutto nudi. Un particolare che da una parte serviva all’artista per far comprendere il rango o la tipologia dei personaggi ritratti, dall’altra era perfettamente in linea con il gusto erotico dei giapponesi, stimolato molto dall’immaginazione. Non è un caso che il culto feticista per alcune parti del corpo e per determinate uniformi o indumenti intimi sia molto diffuso anche nel Giappone di oggi.

Tutti i pittori di ukiyo-e si sono cimentati con gli shunga, da Utamaro a Hiroshige, fino alla superstar Hokusai, autore nel 1814 di un’opera molto particolare, intitolata Il sogno della moglie del marinaio. Il dipinto ritrae il rapporto sessuale di una donna con due piovre che la immobilizzano, avviluppandola con i loro tentacoli. Dal testo che accompagna questa scena veniamo a sapere che tutti e tre i protagonisti provano grande piacere. Lo shunga di Hokusai è interessante perché ci testimonia come le fantasie sessuali dei giapponesi potessero toccare eccessi che sono riconoscibili anche ai giorni nostri. La presa energica e sensuale dei tentacoli delle due piovre, ad esempio, riporta alla mente le pratiche sadomasochistiche del bondage, che oggi ha un discreto seguito in Giappone grazie alla tradizione del kinbaku (“legare stretto”) o shibari. Si tratta di una serie di tecniche ispirate ai metodi di costrizione con corde di canapa adoperati dalle autorità nel XVIII-XIX secolo per il trasporto di malviventi e prigionieri, utilizzate successivamente per legare una persona appunto come pratica sessuale (o, in tempi più recenti, come performance artistica).

Alcuni ipotizzano che l’opera di Hokusai sia stata anche d’ispirazione per un filone horror-pornografico diffuso nel mondo giapponese dei fumetti e del cinema di animazione. Specialità del genere sono creature mostruose dotate di tentacoli che abusano sessualmente di giovani donne. Le scene di questo tipo, seppure assai forti, paradossalmente sfuggono alla censura nipponica, che si limita a proibire la visione di peli pubici e genitali maschili e femminili nell’atto sessuale, di solito nascosti con pixellature o fascette bianche. Insomma, violenza sì, ma guai a mostrare le parti intime.

L’immaginazione e la fantasia sono al centro di un’altra forma espressiva a sfondo sessuale in voga non solo in Giappone (e non solo), cioè il genere hentai. Letteralmente vuol dire “strana condizione”, ma il termine indica la rappresentazione in forma di manga, cartoni animati (anime) e videogiochi di personaggi e situazioni erotiche spesso surreali: personaggi antropomorfi, ermafroditi, “lolite”, incesti, orge, pratiche sadomasochistiche e feticistiche. Gli hentai sono realizzati per soddisfare ogni tipo di fantasia, dalla più innocente alla più perversa, e la loro grande popolarità conferma che per molti sono una valvola di sfogo per pulsioni recondite. Ed è interessante notare che, secondo uno studio del 1999 pubblicato sull’International Journal of Law and Psychiatry, la diffusione di materiale pornografico dagli anni ’70 in poi abbia coinciso in Giappone (ma anche in Danimarca e in Germania) con una netta diminuzione di crimini sessuali, soprattutto nei confronti dei minori.

L’altra faccia della medaglia è l’ennesima contraddizione: gli apparentemente sessuomani giapponesi stanno perdendo interesse nelle relazioni sessuali reali. Da una ricerca realizzata nel 2010 dal Ministero nipponico della Sanità emerge che il 36% dei ragazzi e il 59% delle ragazze tra i 16 e i 19 anni è indifferente o avverso a fare sesso, mentre il 40% delle coppie sposate sotto i 50 anni afferma di non aver fatto sesso nell’ultimo mese. Sono dati che in Giappone guardano con una certa preoccupazione, visto che lì il tasso di natalità è tra i più bassi del mondo.

 

Geishe: non chiamatele escort
Quando in Occidente si parla di geisha, spesso si incappa nello stereotipo “prostituta di lusso”. Basterebbe invece l’etimologia del termine per attribuire la giusta dignità a questa figura della tradizione giapponese: l’ideogramma gei indica “arte” e sha “persona”. La geisha è quindi una persona dedita alle arti. Sì perché danza, canta, suona lo shamisen (una sorta di mandolino a tre corde), ma soprattutto intrattiene gli ospiti di un banchetto o di una festa ravvivando la conversazione quando è necessario, proponendo giochi di società, raccontando storielle divertenti o citando versi poetici. Conosce gli umori dell’uomo, lo coccola, lo seduce, ma non si concede mai carnalmente. Queste intrattenitrici colte, brillanti e seducenti (al contrario della moglie-tipo) ebbero la massima diffusione nel Giappone del XIX secolo. Oggi, le donne giapponesi hanno raggiunto una buona posizione sociale e la professione di geisha è quasi in via di estinzione (ne sono rimaste poche centinaia), soppiantata ormai da altri tipi di entraîneuse più moderne e molto meno sofisticate.

L’industria della fantasia erotica
Il Giappone moderno ha reso illegale la prostituzione nel 1956, ma la normativa si limita a vietare le prestazioni sessuali a pagamento che prevedono un rapporto completo, perciò l’industria del sesso non ha fatto fatica ad aggirare la legge e a prosperare in maniera a dir poco fantasiosa. A cominciare dai soapland: il cliente, dopo una doccia preliminare, viene fatto accomodare su un materassino gonfiabile e una ragazza cosparsa di lozioni e oli si struscia su di lui, massaggiandolo con il proprio corpo. Molto in voga sono gli imekura (image club), i locali dalle ambientazioni più bizzarre per ricreare la fantasia erotica preferita: un vagone della metropolitana per palpeggiare una viaggiatrice, una camera di ospedale per giocare al paziente e all’infermiera, un ufficio per molestare la segretaria. Ambienti fantasiosi si ritrovano anche nei cosiddetti love hotel, che offrono stanze a tema: dalle scenografie ispirate al personaggio di Hello Kitty a quelle con il letto a forma di ring pugilistico, gabbia per uccelli o navicella spaziale, con le giostre dei cavallini o con le stampe erotiche dei quartieri di piacere dell’800. Poi i karaoke con le entraîneuse nude, i telephone club, i bar con le cameriere senza biancheria intima e il pavimento a specchio: ce n’è veramente per tutti i gusti. Ma solo per i sudditi di Sua Maestà l’imperatore. I gaijin (cioè gli stranieri) non sono ammessi, sia per la difficoltà di comprendere le regole dei locali, sia per il timore di trasmissione di malattie come l’Aids.