Il primo imperatore

di Fabio Massi

Oltre 2mila anni fa Shi Huangdi unificò la Cina sotto il suo dominio, prima di farsi seppellire con il proprio esercito (di terracotta).

Prima di lui caos, divisioni e guerre. Con lui ordine, unità e potere assoluto. È lo straordinario impatto che ebbe la vita di Qin Shi Huangdi, il primo imperatore della storia cinese, l’uomo che con ferocia e determinazione riuscì a unificare immensi territori e realizzò una serie di opere e di riforme che avrebbero segnato la Cina per molti secoli a venire. Per alcuni storici fu un tiranno spietato, per altri uno straordinario condottiero dall’intelligenza eccezionale, di certo Qin Shi Huangdi merita un posto nell’Olimpo dei più grandi personaggi dell’antichità.

Negli oltre due secoli che precedettero le gesta di questo controverso sovrano – passati alla storia come il periodo dei “Regni combattenti” (453-222 a.C.) – l’assetto politico-istituzionale della Cina era del tutto disgregato. Il potere, ufficialmente detenuto dalla dinastia Zhou, era in realtà conteso con le armi da diverse unità territoriali, ognuna con il proprio sovrano e il proprio esercito. Stando alla tradizione storiografica cinese erano sette i regni che si contendevano il predominio: uno di questi, il Regno di Qin, si rivelò il più forte, grazie alle eccelse capacità strategiche e di leadership del suo sovrano, Ying Zheng. In meno di un decennio il re di Qin riuscì a soggiogare, uno dopo l’altro, tutti i suoi nemici dopo terribili massacri: dal 230 al 221 a.C. portò a termine l’unificazione, sotto un unico governo, di un territorio vastissimo e di numerose popolazioni.

Per suggellare la titanica impresa della conquista del tianxia (“ciò che sta sotto al Cielo”) – in pratica tutto il mondo civilizzato conosciuto dai cinesi dell’epoca – e per sottolineare il suo potere assoluto, il sovrano di Qin all’età di 38 anni assunse il titolo di huangdi, cioè “augusto imperatore”. Fu una scelta di grande superbia, una vera sfida alla tradizione poiché i caratteri huang e di erano stati utilizzati fino ad allora soltanto per indicare i mitologici sovrani della semileggendaria civiltà cinese delle origini. Inoltre, il re di Qin decise di far precedere al suo titolo già altisonante l’ideogramma shi (“primo”), per dimostrare che il suo regno inaugurava una nuova era e che egli sarebbe stato il primo augusto imperatore di una dinastia il cui “mandato celeste” (tianming) sarebbe durato per “diecimila generazioni”.

Una volta sottomessi tutti gli altri regni, il Figlio del Cielo (tianzi) si preoccupò di trasformare le immense conquiste militari in una realtà politica e amministrativa. Per fare questo, si affidò all’abilità del suo primo ministro, Li Si. Non uno qualunque: Li Si era un intellettuale del movimento legista (fajia o “scuola della legge”) che credeva fermamente nell’organizzazione dello Stato basata sulla concentrazione dell’autorità e del potere nelle mani di un’unica persona, cui il popolo – ma anche l’aristocrazia – dovevano obbedire ciecamente, a fronte di punizioni terrificanti (mutilazioni, marchiature a fuoco, decapitazioni, impiccagioni).

Come prima misura furono aboliti i vecchi Stati, cancellati i loro confini e abbattute molte delle fortificazioni difensive costruite negli anni precedenti. Le aristocrazie ereditarie vennero spodestate e più di 120mila famiglie nobili furono umiliate e costrette ad abbandonare i propri luoghi di nascita e le tombe dei propri antenati per trasferirsi nella nuova capitale dell’impero, Xianyang (nei pressi dell’odierna Xi’an, Cina nord-occidentale), in modo da poter essere tenute sotto il diretto controllo della corte. Lo sterminato territorio fu diviso in 36 province (jun), a loro volta suddivise in distretti (xian) e contee (xiang). La moneta di forma circolare in uso nello Stato di Qin fu imposta come unica valuta corrente, mentre le misure di peso, capacità e lunghezza utilizzate fino ad allora da ogni regno furono standardizzate. Idem per la dimensione degli assi delle ruote dei carri per agevolare la circolazione sulla gigantesca rete stradale che l’imperatore fece realizzare. Anche la scrittura degli ideogrammi fu uniformata e fu imposto il sistema utilizzato nello Stato di Qin, detto del “piccolo sigillo”.

Ma il Figlio del Cielo non poteva dormire sonni tranquilli: il suo incubo aveva le fattezze di velocissimi e sanguinari uomini a cavallo. I territori del Nord, infatti, erano preda delle continue incursioni dei popoli nomadi, gli Xiongnu (secondo alcuni storici si sarebbe trattato degli Unni che qualche secolo dopo avrebbero invaso l’Europa). L’imperatore ordinò di costruire lungo i confini più settentrionali un’opera titanica: un muro di terra battuta e pietre che si sviluppava per oltre 6mila chilometri dalle montagne occidentali fino alla penisola di Liaodong, a ridosso della Corea. Era l’antenata della Grande Muraglia (Changcheng in cinese). In realtà, quella che visitano oggi i turisti (lunga circa 8mila km) è un rifacimento in muratura di epoca Ming (XV-XVI secolo d.C.). L’immensa fortificazione fatta realizzare a tempo di record dall’imperatore, sebbene nella sua struttura essenziale collegasse tratti di muraglie erette precedentemente dai regni conquistati, richiese un sacrificio enorme in termini di vite umane: si stima che persero la vita quasi un milione di operai costretti ai lavori forzati in condizioni atroci

Il funzionamento dell’immensa macchina amministrativa, le continue spedizioni militari verso Sud per allargare i confini dell’impero, la realizzazione delle gigantesche opere pubbliche, dei palazzi sfarzosi e dell’incredibile mausoleo voluto per sé dal Figlio del Cielo (vedi box) richiesero enormi quantità di risorse, sia economiche in forma di tasse, sia di uomini con milioni di contadini costretti ad abbandonare il lavoro dei campi. La vecchia classe dirigente, che dal punto di vista ideologico si rifaceva alla tradizione confuciana portatrice dei valori dell’antichità, era sempre più critica verso la politica megalomane di Qin Shi Huangdi. Quando il malcontento toccò livelli di guardia, l’imperatore attuò una durissima repressione e dichiarò guerra alla dottrina confuciana. Così come in tutti i regimi totalitari, l’ideologia praticata nell’impero doveva essere soltanto una, quella legista, mentre le altre dovevano essere messe al bando. Nel 213 a.C. la persecuzione raggiunse il punto di non ritorno e, seguendo il consiglio del suo primo ministro, Qin Shi Huangdi ordinò che tutti gli antichi testi fossero dati alle fiamme, ad eccezione di quelli di argomento scientifico, tecnico e di divinazione per ragioni di pratiche quotidiane. L’anno successivo, 460 letterati accusati di aver criticato il regime e di aver conservato testi proibiti scampati al rogo vennero condannati ad essere sepolti vivi in una fossa comune. Neanche il principe ereditario poté sottrarsi all’intransigenza del sovrano e venne allontanato in esilio per aver disapprovato l’operato del padre.

Benché potentissimo, Qin Shi Huangdi era ossessionato dalla morte. Spese tutte le sue energie per allontanarla: sottopose il suo fisico a continue dosi di mercurio e si recò per tre volte nell’isolotto di Zhifu (Cina nord-orientale) alla ricerca della Montagna dell’Immortalità che, secondo un’antica leggenda, avrebbe custodito l’elisir di lunga vita. Fu tutto inutile. Non solo: la sua ossessione per l’immortalità si rivelò fatale per il Figlio del Cielo, che morì improvvisamente nel 210 a.C. (all’età di 49 anni). In maniera beffarda, pare, dopo aver ingerito una delle tante pillole di mercurio preparate dai medici. Il trono celeste passava al suo secondogenito Hu Hai, molto meno capace del padre: il governo si sgretolò velocemente lasciando il posto a una nuova dinastia, gli Han. Il casato Qin, che avrebbe dovuto regnare per “diecimila generazioni”, durò soltanto pochi anni. Ma il primo imperatore trovò la sua eternità, sotto forma di un mito che resiste intatto da più di venti secoli.

 

Un tesoro scoperto per caso
Nel marzo del 1974, nella campagna nei dintorni di Xi’an, un contadino intento a scavare un pozzo urtò con la zappa qualcosa di duro: era il collo di una statua in terracotta raffigurante un antico guerriero. La casuale scoperta si rivelò di un’importanza eccezionale. Sotto quel terreno, infatti, giace da più di due millenni l’incredibile “esercito di terracotta”, sotterrato a guardia del mausoleo fatto costruire da Qin Shi Huangdi per il suo passaggio nell’aldilà. Nel corso degli anni, gli archeologi hanno portato alla luce più di 2mila statue di terracotta raffiguranti, a grandezza naturale, le guardie imperiali schierate in posizione da combattimento (si stima che in totale possano esserci 8mila soldati, oltre a centinaia tra cavalli e carri in bronzo). Ogni statua è un pezzo unico e riproduce nei minimi particolari la divisa e l’equipaggiamento dei guerrieri dell’epoca. L’esercito di terracotta si trova a un chilometro e mezzo dal sepolcro dell’imperatore, situato sotto una collinetta che, secondo le antiche scritture, nasconderebbe una riproduzione dell’antica capitale circondata da fiumi di mercurio e sormontata da un cielo stellato di pietre preziose. Ma gli archeologi cinesi finora hanno preferito non accedervi: il rischio di far danni irreparabili è troppo elevato.

Il suo mito sbarca al cinema
Considerato dalla tradizione cinese di stampo confuciano come un tiranno brutale e oscurantista, la figura di Qin Shi Huangdi fu rivalutata negli anni Quaranta del Novecento, nelle fasi concitate che portarono alla nascita della Repubblica popolare cinese: il Kuomintang di Chiang Kai-shek prima e il partito comunista di Mao Zedong poi reinterpretarono a loro vantaggio l’opera di unificazione e di standardizzazione realizzata dal primo imperatore cinese. Il successo del mito Qin Shi Huangdi e delle sue gesta, però, è un fenomeno recente, nato in seguito alla scoperta dell’esercito di terracotta e diffuso negli ultimi due decenni grazie alle numerose mostre che hanno ospitato i reperti rinvenuti nel mausoleo imperiale. Il cinema ha dato il suo contributo con film di successo come L’imperatore e l’assassino (1999) del regista Chen Kaige e Hero (2002) diretto da Zhang Yimou, interpretati da grandi star asiatiche. Per non parlare dei molti documentari e sceneggiati televisivi, fumetti e addirittura videogiochi.