Aperti al mondo

di Fabio Massi

Nella seconda metà dell’Ottocento la dinastia Meiji, assecondando le richieste occidentali, modernizzò il Giappone. E inaugurò la sua politica di espansione.

Uno straordinario salto nel futuro, tra riforme radicali e simboli millenari. Sono gli anni del periodo Meiji (1868-1912), durante i quali il Giappone, da Paese feudale e arretrato, si trasformò in una potenza mondiale moderna in grado di competere alla pari con le nazioni occidentali. Tutto ebbe inizio l’8 luglio 1853 con una visita non del tutto inattesa: il commodoro americano Matthew Calbraith Perry attraccò le sue minacciose “navi nere” nella baia di Tokyo portando richieste perentorie. Intimava allo shōgun – il dittatore militare che di fatto deteneva il potere nel Paese – di concedere agli Stati Uniti l’apertura permanente di alcuni porti e di firmare un trattato di commercio e navigazione a dir poco svantaggioso per le autorità nipponiche, soprattutto in termini di competenze giuridiche e territoriali.

Le pretese americane, che posero fine a due secoli di politica isolazionista (sakoku) del Giappone, causarono scompiglio e preoccupazione tra i membri del bakufu (il governo shogunale), i quali iniziarono un giro di consultazioni tra i principali signori feudali (daimyō), coinvolgendo anche la corte imperiale. Si trattò di un atto senza precedenti, che fu interpretato da tutti come un’ammissione di debolezza e indecisione. Nonostante molte opposizioni, alla fine gli accordi con gli americani furono firmati e poco dopo anche Olanda, Russia, Inghilterra e Francia riuscirono a ottenere concessioni simili, mettendo a nudo la totale inadeguatezza del Giappone nello scacchiere internazionale. Questi “trattati ineguali” – che le maggiori potenze mondiali imposero anche a Cina e Corea – spaccarono in due il Paese. Da una parte, il bakufu con la sua posizione di prudenza e moderata apertura, suffragata anche dalla consapevolezza della superiorità tecnica e bellica delle nazioni occidentali. Dall’altra, invece, l’approccio conservatore dei daimyō vicini alla corte imperiale, che rifiutavano qualunque contatto con gli stranieri, tanto più sul suolo giapponese. Il loro slogan era categorico: “onora l’imperatore, espelli i barbari” (sonnō jōi). Lo scontro tra le due fazioni fu inevitabile e si tramutò presto in guerra civile.

La situazione si fece molto aspra a partire dal 3 gennaio 1868, quando il potere fu formalmente riconsegnato nelle mani dell’imperatore (tennō) dopo quasi sette secoli di dominio degli shōgun. Il conflitto si concluse a metà dell’anno successivo con la fuga del bakufu, mentre i daimyō vincitori, dopo aver messo a disposizione del giovanissimo tennō Mutsuhito (vedi box) i loro territori e i loro sudditi, si spartirono i ruoli di maggior peso all’interno del nascente governo. La priorità adesso era cancellare la vergogna dei “trattati ineguali”, ma per poterlo fare la nuova oligarchia comprese che era necessario “arricchire il Paese e rafforzare l’esercito” (fukoku kyōhei), in modo da consentire al Giappone di far sentire il giusto peso nel contesto internazionale. La nuova era, perciò, iniziò con una politica di completa apertura nei confronti del commercio, della scienza e del sapere dei “barbari”. A cominciare dall’apparato istituzionale.

Dopo aver studiato attentamente i sistemi utilizzati negli altri Paesi – anche con diverse missioni di esperti all’estero – fu scelto di adottare una Costituzione d’ispirazione prussiana, poiché concedeva maggiori poteri all’esecutivo, con la figura del cancelliere che rispondeva direttamente al tennō. «Questa profonda trasformazione si appoggiò a due elementi diversi, quasi antagonistici, com’è testimoniato dalla Costituzione Meiji del 1889, che coniugava il diritto costituzionale di matrice occidentale con la tradizione nipponica di “una linea di sovrani ininterrotta per l’eternità” (art. 1)» spiega Daniela De Palma, storica del Giappone contemporaneo. «Da un lato, infatti, per affrancare il Giappone dalle nazioni occidentali, gli statisti Meiji puntarono su una massiccia occidentalizzazione a tutti i livelli, assimilando tecnica, costumi, ordinamenti (amministrativo, legislativo, giudiziario, commerciale ecc.). Dall’altro, la pietra d’angolo per la costruzione di un nuovo Giappone non poteva che essere il ritorno al potere e il trionfo dell’istituzione più tipicamente nipponica, quella imperiale. In tutta la storia dell’arcipelago, il tennō, sebbene spesso messo da parte o “usato” per legittimarsi da coloro che gestivano il potere (inclusi gli statisti Meiji), è stato sempre ritenuto l’insostituibile sorgente di autorità e onori, in virtù della sua mitica origine divina, detenendo il potere sacrale di massimo sacerdote dello shintō, intermediario tra le divinità ancestrali e la popolazione nipponica, cui garantiva il benvolere della divinità».

Sempre in nome dell’imperatore furono aboliti i diritti feudali, esautorati i cortigiani, mentre i daimyō furono convertiti in governatori provinciali nominati direttamente dal tennō, che nel frattempo aveva spostato la capitale da Kyoto a Edo, ribattezzata Tokyo (“capitale orientale”). Anche i samurai – che costituivano la classe più colta della società – persero i loro privilegi, tra cui quello di adoperare la spada, poiché il Paese si stava dotando di un esercito moderno, anche con l’introduzione nel 1872 della leva obbligatoria. Gli antichi guerrieri furono perciò liquidati con ingenti somme di denaro e incoraggiati a diventare imprenditori nel commercio e nell’industria. Anche l’istruzione pubblica fu tra le priorità del nuovo governo e nel 1872 fu promulgata una legge che divideva il Paese in otto distretti scolastici, ciascuno dei quali comprendeva un’università e 32 scuole secondarie, oltre a centinaia di istituti primari.

L’intera organizzazione scolastica era sotto il diretto controllo governativo e, accanto ai programmi di tipo occidentale, s’impartiva un’educazione morale basata sull’etica confuciana e sul nazionalismo incentrato sul culto dell’imperatore. Gli occhi vigili del regime si posarono anche sulla stampa e nel 1875 fu emanata una legge ad hoc che imponeva non soltanto la registrazione di proprietario, direttore e tipografo dei giornali, ma anche la firma su tutti gli articoli, senza l’utilizzo di pseudonimi. Il direttore, inoltre, era ritenuto il responsabile ultimo di eventuali commenti diffamatori, dileggi o critiche verso l’operato del governo. In campo economico la modernizzazione cominciò dall’agricoltura, con una serie di innovazioni che introdussero nuovi strumenti e nuove tecniche di lavorazione. In pochi anni la produzione di riso crebbe di più del 30% e anche la pesca conobbe uno sviluppo sorprendente.

Le attività industriali furono incoraggiate dal governo attraverso investimenti per importare dall’estero sia merci sia macchinari, oltre che con l’istituzione di scuole tecniche e facendo affluire esperti stranieri per dirigere alcune nuove aziende. Per tutti gli anni ’70 e parte degli ’80, per molti giapponesi l’Occidente era sinonimo di progresso, ma accanto a elementi utili per lo sviluppo della società furono importati anche modelli meno essenziali, soprattutto in termini estetici come in architettura, nel design degli oggetti, nella musica, nell’abbigliamento o nelle acconciature dei capelli. Non tutti furono entusiasti di queste mode e, a partire dagli anni ’90, aumentarono coloro che premevano per un ritorno ai valori tradizionali, un sentimento che in realtà non si era mai sopito in certi ambienti, in particolare in quello militare.

Questo ritrovato “amor patrio” (aikoku) sfociò ben presto in un crescente nazionalismo – colorito anche con forti tinte xenofobe – che si stringeva intorno alla figura dell’imperatore, perciò fu appoggiato di buon grado dal governo. Inoltre, il primo obiettivo degli statisti Meiji era sempre stato quello di creare uno Stato ricco e un esercito forte, perciò questo diffuso patriottismo si sposava alla perfezione con la politica imperiale, soprattutto quella estera. Con la crescita industriale ed economica, infatti, era giunto il momento per il Giappone di perseguire obiettivi analoghi a quelli dei Paesi occidentali, al di là dei propri confini. Le mire coloniali nipponiche s’indirizzarono su un antico bersaglio: la penisola coreana. Seppur indipendente, il regno di Corea era di fatto sotto l’influenza dell’impero cinese, perciò quando nel giugno 1894 l’esercito giapponese invase il territorio coreano col pretesto di sedare alcune rivolte locali, lo scontro con la Cina fu immediato.

La guerra fu rapida e si risolse con una brillante vittoria delle forze imperiali, un risultato che scatenò grande entusiasmo nell’opinione pubblica. Nel 1899 ci fu un nuovo importante successo: i “trattati ineguali” furono aboliti e il Giappone poté recuperare una posizione paritaria rispetto alle potenze occidentali, una condizione che fu ancora più evidente qualche anno più tardi con il trionfo nella guerra contro la Russia (vedi box). Il periodo Meiji si concluse nel 1912 con la morte dell’imperatore Mutsuhito, dopo 45 anni di mutamenti epocali. Il Giappone era ormai pronto per giocare un ruolo di primissimo piano in ambito internazionale.

 

L’IMPERATORE ILLUMINATO
Quando il 30 luglio 1912 Mutsuhito, il 122° imperatore del Giappone, morì a causa di un’insufficienza renale a 59 anni, in tutto il Paese ci furono manifestazioni di incredibile cordoglio: a Tokyo, ad esempio, fu eretto un tempio scintoista in suo onore (il Meiji Jingu), mentre alcuni alti funzionari – tra cui il generale Nogi, eroe della guerra contro la Russia – vollero seguirlo nella tomba compiendo il suicidio rituale (seppuku). Tali eventi testimoniano lo spessore di questo monarca, che da figura simbolica reclusa e priva di autorità divenne un sovrano di origine semidivina alla guida di un forte Stato nazionale. Durante il suo regno, infatti, che egli stesso chiamò Meiji (“governo illuminato”), Mutsuhito seppe accompagnare il Giappone attraverso una fase di mutamenti sensazionali e veloci. Anche se il potere effettivo rimase sempre nelle mani di una ristretta oligarchia composta da alti membri della sfera politica, militare ed economica, l’imperatore ebbe una grande influenza nella clamorosa modernizzazione del Paese. Anzi ne fu parte integrante fin dall’inizio, quando, con un giuramento scritto in cinque punti, annunciò ai suoi sudditi le riforme necessarie, a partire dalla Costituzione.

IL TRIONFO CONTRO LA RUSSIA
La brillante vittoria nella guerra contro la Cina che, tra le altre cose, aveva portato l’annessione dell’isola di Taiwan, diede al governo Meiji la consapevolezza di poter mettere in atto una politica coloniale come quella delle altre potenze mondiali. L’obiettivo era la Manciuria, terra dalle enormi potenzialità naturali, ricchissima di giacimenti di ferro e carbone, indispensabili per l’industria pesante nipponica in grande espansione. L’unico ostacolo era la Russia che da qualche anno aveva occupato la regione. Dopo aver concluso uno patto di neutralità con la Gran Bretagna, il Giappone nel luglio 1904 intimò alla Russia di ritirarsi dalla Manciuria. L’ultimatum fu completamente ignorato dalle truppe zariste, perciò fu guerra. L’esercito e la marina giapponesi collezionarono un successo dopo l’altro: memorabile l’assedio vittorioso di Porth Arthur (oggi Lüshun) della III armata del generale Nogi, così come la battaglia di Tsushima in cui le navi dell’ammiraglio Togo distrussero l’intera flotta russa. La guerra si concluse ufficialmente il 5 settembre 1905 con il trattato di Portsmouth, con il riconoscimento della supremazia del Giappone sia in Corea sia in Manciuria. Era la prima volta, nella storia moderna, che una nazione asiatica sconfiggeva, anzi umiliava una grande potenza.