La guerra di Mao

di Fabio Massi

Più che una rivoluzione, il lungo braccio di ferro che vide nascere, nel 1949, la Repubblica popolare fu una guerra civile tra comunisti e nazionalisti.

Il 12 febbraio 1912 il piccolo Puyi (aveva 6 anni), l’ultimo imperatore della storia della Cina, fu costretto ad abdicare e a vivere da recluso all’interno della Città proibita. Sembrò allora che – come nella Sicilia del Gattopardo – tutto fosse cambiato perché nulla cambiasse. Era nata la repubblica, ma il Paese rimaneva drammaticamente arretrato e i “signori della guerra” gestivano il potere locale, spalleggiati dalle potenze occidentali che continuavano indisturbate a coltivare i loro affari.
Era cambiato talmente poco che il primo presidente della Repubblica cinese Yuan Shikai – ex uomo forte della dinastia Qing e avversario di Sun Yat-sen, leader nazionalista – tentò addirittura di restaurare la monarchia e di autoproclamarsi imperatore. Le forze di opposizione, però, si compattarono dopo che Yuan Shikai nel maggio 1915 accettò le cosiddette “21 domande” del Giappone, con le quali la potenza nipponica intendeva formalizzare il suo protettorato economico e politico sull’ex “celeste impero”.

E quando il presidente morì, nel 1916, fu il caos. «Nel periodo tra il 1915 e il 1920 – scrive la storica Enrica Collotti Pischel nel volume Storia della rivoluzione cinese (Editori Riuniti) – si formarono i fattori sociali specifici che avrebbero contraddistinto la rivoluzione cinese: la tensione sociale rurale, la repressione armata a garantire lo sfruttamento dei contadini, lo spossessamento di vaste masse e la concentrazione fondiaria, l’impossibilità per un’economia borghese di svilupparsi fino a che non fosse stato fatto saltare l’appoggio reciproco tra i proprietari terrieri e i “signori della guerra” legati alle grandi potenze. Soltanto una radicale rivoluzione che coinvolgesse la Cina alle radici avrebbe minato le basi di questo regime e avrebbe eliminato dalla scena politica e dal contesto sociale il fenomeno dei “signori della guerra”». E rivoluzione fu.

Il cambiamento cominciò con il cosiddetto “movimento del 4 maggio”. In quel giorno del 1919, infatti, si verificarono agitazioni studentesche antimperialiste in molte università del Paese: sotto accusa era il trattamento subito dalla Cina (a tutto vantaggio del Giappone) nella conferenza di pace di Versailles che chiudeva il primo conflitto mondiale. Le proteste furono così imponenti che convinsero il governo cinese a ritirare i suoi delegati da Parigi senza firmare il trattato. Dalla Russia, intanto, arrivava l’eco della “rivoluzione d’ottobre” e riviste cinesi come Gioventù nuova (Hsin Ching-nien), con un linguaggio semplice, diffondevano tra le masse idee rivoluzionarie. Il pensiero marxista fu sdoganato ufficialmente il 1° luglio 1921 quando a Shanghai nacque il Partito comunista cinese (Pcc). I suoi fondatori – tra cui Mao Tse-tung (vedi box) – promossero fin da subito un’intensa attività sindacale nella classe operaia e, tra l’estate del 1921 e la primavera del 1923, ci furono scioperi in molte fabbriche, contrassegnati da uno spiccato carattere antimperialista.

Dopo che una di queste proteste fu repressa nel sangue dal locale “signore della guerra”, i vertici del Pcc si resero conto che per rovesciare la situazione del Paese era necessario coinvolgere altre forze rivoluzionarie. Si guardò a Sun Yat-sen, che nel frattempo era tornato “in pista” dopo la morte di Yuan Shikai: i bolscevichi russi lo avevano aiutato a riorganizzare a Canton il suo movimento – il Partito nazionalista cinese (Kuomintang) – e a fondare un’accademia militare per la formazione di una forza armata rivoluzionaria. L’alleanza tra comunisti e nazionalisti cinesi, però, subì presto uno stop improvviso: Sun Yat-sen morì nel marzo del 1925, lasciando il Kuomintang in bilico tra due opposte correnti. L’ala di destra prevalse e il suo leader, Chiang Kai-shek (vedi box), riuscì a farsi eleggere comandante in capo dell’armata nazionale-rivoluzionaria. Forte di un esercito ben preparato, nel luglio del 1926 il “generalissimo” – come fu chiamato in seguito – avviò una grande spedizione militare verso il Nord per porre fine al regime dei “signori della guerra” e alle occupazioni straniere. Dopo alcuni facili successi, Chiang Kai-shek considerò che fosse il momento propizio per rompere definitivamente con i comunisti. E lo fece in maniera brutale: nell’aprile del 1927 scatenò a Shanghai una vasta caccia all’uomo, che si protrasse per tutta l’estate, alla fine della quale si contarono alcune migliaia di morti tra militanti di base, sindacalisti, operai e anche molti militari.

L’avanzata verso le regioni settentrionali si concluse nel giugno del 1928 con la conquista di Pechino e con la maggior parte del Paese unificata. Solo alcune autonomie locali rimanevano ancora sotto il controllo dei “signori della guerra”. Chiang Kai-shek stabilì il nuovo governo a Nanchino e ottenne il riconoscimento delle potenze straniere, esclusa l’Unione Sovietica che ruppe le relazioni diplomatiche in seguito alla repressione di Shanghai. Nel frattempo, dopo una disastrosa insurrezione finita in un bagno di sangue, Mao Tse-tung e poche migliaia di rivoluzionari comunisti si rifugiarono sulle montagne dello Jinggang, nel Sudest del Paese, dove fondarono il primo nucleo della cosiddetta Armata rossa. Mao era convinto – in aperto contrasto con i vertici del Pcc, fedeli alla linea di Mosca – che fosse indispensabile per la causa rivoluzionaria coinvolgere attivamente le masse di contadini e intraprendere la lotta armata. Perciò avviò la costituzione di una serie di “basi rosse”, impostate su un’agile organizzazione militare e su radicali riforme agrarie, che diedero vita dal 1931 al 1937 alla Repubblica sovietica cinese, di cui lo stesso Mao fu il presidente. La feroce repressione attuata da Chiang Kai-shek costrinse però il Pcc a cambiare strategia: nel gennaio 1935 a Tsunyi i vertici del partito affidarono la direzione a Mao e appoggiarono in toto la sua linea. Il nuovo leader stava per scrivere una delle pagine più epiche nella storia della rivoluzione cinese.

Alla quinta offensiva sferrata dall’esercito del Kuomintang contro le basi rosse, Mao trasformò una “semplice” ritirata strategica in una leggendaria spedizione verso il Nord per andare a combattere le truppe giapponesi, che nel frattempo erano penetrate in territorio cinese dalla Corea. La “lunga marcia” vide un esercito di 90mila uomini partire dalle basi rosse del Sudest e percorrere in dodici mesi – sempre braccati dalle truppe di Chiang Kai-shek – quasi 10mila chilometri tra montagne, regioni impervie e grandi fiumi. Nell’ottobre del 1935 furono solo 7mila gli uomini che raggiunsero la regione settentrionale dello Shanxi, ma l’operazione fu comunque un importante successo militare e soprattutto politico. Oltre all’alone romantico che l’avvolgeva, infatti, l’impresa guidata da Mao ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica e mise in evidenza come Chiang Kai-shek preferisse continuare la guerra civile piuttosto che combattere l’invasore straniero. La priorità, per la Cina, era invece arginare l’avanzata del colonialismo nipponico. Nazionalisti e comunisti cinesi furono comunque costretti a fare fronte comune. Un fronte che rimase sempre su due binari paralleli, due interpretazioni di resistenza completamente diverse.

La strategia dei rivoluzionari di Mao era “disturbare” il fortissimo esercito giapponese attraverso le azioni della guerriglia contadina: il piano era danneggiare sistematicamente le retrovie nemiche e difendere i raccolti e gli abitanti. Chiang Kai-shek, invece, era convinto che il Giappone, con l’allargamento del conflitto dal 1941, prima o poi sarebbe capitolato e cercò di guadagnare tempo senza opporre una vera resistenza armata, lasciando le popolazioni in balìa delle truppe nipponiche. Alla fine, dopo la disfatta del Giappone, la guerra civile cinese riprese in tutta la sua drammaticità. Nell’estate del 1946 Chiang Kai-shek, forte dell’appoggio degli Stati Uniti – preoccupati per l’avvento di un regime comunista in Cina –, sferrò una gigantesca offensiva contro i guerriglieri rossi.
Mao sembrava battuto. Ma il controllo del Kuomintang di vaste zone del Paese era costato tantissimo in termini economici e soprattutto in vite umane. La situazione stava per cambiare in maniera irreversibile. Nel giugno del 1947 gli uomini di Mao – ribattezzati Esercito popolare di liberazione – passarono al contrattacco mettendo a segno un successo dopo l’altro, fino a costringere Chiang Kai-shek a cercare di intavolare una trattativa. Ma ormai era tardi. Il “generalissimo” dovette trasferirsi col suo governo nell’isola di Taiwan, mentre il 1° ottobre 1949, a Pechino, Mao proclamava solennemente la nascita della Repubblica popolare cinese. La Cina si avviava sulla tortuosa strada della modernizzazione.

 

CHIANG KAI-SHEK
Dopo aver combattuto attivamente per rovesciare la dinastia Qing, nel 1912 aderì al Kuomintang di Sun Yat-sen, assumendone dopo pochi anni le redini. Anche se il “generalissimo” fu l’artefice nel 1926 della riunificazione della Cina e contribuì a liberare il Paese nel secondo conflitto mondiale, non è mai stato considerato una figura popolare dai cinesi. Il motivo probabilmente coincide con l’ossessione della sua vita: l’eliminazione dei comunisti. Ci provò in tutti i modi, anche quando le truppe giapponesi entrarono nel territorio cinese. Per questo fu addirittura arrestato da alcuni suoi stessi ufficiali nel cosiddetto “incidente di X’ian” e liberato solo dopo essersi impegnato a intraprendere la resistenza armata contro le truppe nipponiche. Nemmeno il generoso aiuto degli Stati Uniti bastò a Chiang Kai-shek per portare a termine la sua missione. Anzi nel 1949, mentre Mao faceva nascere la Repubblica popolare cinese, fu costretto a fuggire sull’isola di Taiwan dove fu il presidente di un regime autoritario fino alla fine dei suoi giorni (1975).

MAO TSE-TUNG
Sono passati circa 50 anni da quando i giovani cinesi osannavano Mao Tse-tung, sventolando il “libretto rosso” con le sue citazioni. Oggi, in una Cina che ha scelto di lanciarsi verso il capitalismo, l’eredità di una delle figure più controverse del XX secolo non trova più lo stesso entusiasmo. Si preferisce ricordare che le spoglie custodite nel mausoleo in piazza Tienanmen a Pechino appartengano al più importante padre della patria. A incidere sulla memoria, infatti, c’è la durissima politica attuata da Mao per far ripartire un Paese economicamente a terra: la collettivizzazione agraria, la statalizzazione delle imprese e la costruzione di un’industria moderna favorirono la ripresa, ma il prezzo fu pesantissimo in termini di vite umane. Ancora più drammatico fu il bilancio causato dal cosiddetto “Grande balzo in avanti” che Mao lanciò nel 1958 per accelerare la produttività agricola e industriale con il motto “20 anni in un giorno”. Uno sforzo che si rivelò fallimentare e che portò alla morte milioni di persone per carestia.

RIVOLUZIONE CULTURALE
Nel novembre del 1965 un giornalista di un quotidiano di Shanghai in un suo articolo attaccò aspramente un’opera del drammaturgo e vicesindaco di Pechino Wu Han, considerata una critica mascherata nei confronti di Mao Tse-tung. Era la scintilla di una gigantesca Rivoluzione culturale che stava per sconvolgere la Cina. Quell’articolo fu seguito da altri che innescarono nell’opinione pubblica un dibattito sulle scelte troppo “capitaliste” dei vertici politici. Il 16 luglio 1966, dopo qualche anno di silenzio, Mao si riaffacciò sulla scena politica in maniera spettacolare: a quasi 73 anni compiva la celebre nuotata nel fiume Yangtze, scatenando un’ondata di entusiasmo tra la gente. Il padre della rivoluzione appoggiò apertamente i dazibao (i giornali murali) affissi nelle università che davano voce alle critiche e bollavano la classe dirigente come “borghese”. Masse di studenti – le cosiddette “guardie rosse” – furono incoraggiate a viaggiare per il Paese a denunciare e processare gli elementi che deviavano dalla purezza comunista. La situazione degenerò: tra violenze e umiliazioni, i nuovi rivoluzionari sconquassarono università, fabbriche, uffici, costringendo migliaia di politici, funzionari e letterati all’autocritica e ai campi di rieducazione. I morti non si contarono, mentre nel Paese regnava il caos. Mao si affidò allora all’esercito per ristabilire l’ordine e milioni di studenti furono inviati nelle campagne per essere a loro volta rieducati. Il risultato fu un rapido arretramento economico e sociale della Cina.