Prova di forza

di Fabio Massi

Con le atomiche su Hiroshima e Nagasaki si concluse, nell’agosto del 1945, il secondo conflitto mondiale. Ecco perché il Giappone fu l’ultimo ad arrendersi. E perché gli Usa si accanirono su un Paese di fatto sconfitto.

Alle 8:15 del mattino del 6 agosto 1945 il cielo sopra Hiroshima improvvisamente si accese di una luce abbagliante, seguita da un’immane deflagrazione. I giapponesi la chiamarono pikadon, l’“esplosione accecante” dell’ordigno atomico sganciato dal bombardiere americano “Enola Gay”. Lo stesso inferno toccò tre giorni più tardi a Nagasaki, anche se in realtà l’obiettivo primario era la città di Kokura, ma un fitto annuvolamento condizionò i piani. Alle 11:02 del mattino il bombardiere “Bock’s car” sganciò un secondo ordigno atomico. Dalle testimonianze dei superstiti o hibakusha (letteralmente “persone colpite dall’esplosione”) c’è tutto l’orrore di quei giorni, che culminarono con la resa incondizionata del 15 agosto. Ma era proprio necessario causare tanta atrocità alla popolazione civile?

«Non esisteva più niente, ad eccezione di pochi edifici in cemento armato. Per chilometri e chilometri, la città sembrava un deserto: non ne restavano che mucchi di mattoni e tegole». Così il medico Michihiko Hachiya descrive ciò che vide nel suo Diario di Hiroshima. 6 agosto-30 settembre 1945 (Feltrinelli). «Dovevo riesaminare il significato che avevo dato finora alla parola “distruzione”, o cercarne un’altra che esprimesse quello che vedevo».
Il vigile del fuoco Yosaku Mikami, all’epoca 32enne, racconta come fosse drammatico soccorrere i feriti nelle strade: «Provavamo a trasferirli sul nostro camion prendendoli per le gambe e le braccia, ma era davvero complicato: appena li spostavamo la loro pelle si staccava». Nel ricordo della poetessa Fumiko Miura, che il 9 agosto 1945 era a Nagasaki e aveva 16 anni, c’è la scoperta dei drammatici effetti della nuova arma utilizzata dagli americani: «Poco dopo l’esplosione della bomba molti sopravvissuti accusarono strani disturbi: vomito, perdita di appetito, diarrea, febbre alta, debolezza, macchie violacee su diverse parti del corpo, sangue dalla bocca e dalle gengive, caduta dei capelli e diminuzione dei globuli bianchi. Li chiamammo genbakushō (“sintomi della bomba atomica”) e molti di coloro che rimasero feriti in maniera lieve morirono nei mesi successivi».

Ma il Giappone faceva davvero così paura da doverlo annientare? In realtà, alla fine di giugno del 1945, il Giappone era una nazione già sconfitta, le ultime resistenze dell’esercito, della marina e dell’aviazione imperiali erano state spazzate via durante i terribili combattimenti sull’isola di Okinawa. I bombardieri americani B-29 avevano devastato le città giapponesi: nella sola notte tra il 9 e il 10 marzo 1945, 280 aerei sganciarono su Tokyo 1.700 tonnellate di bombe, radendo al suolo un’area di 40 chilometri quadrati e causando 100.000 morti tra i civili e un milione di sfollati. La popolazione giapponese, poi, era già molto stremata anche dalla scarsità dei viveri, i prezzi dei beni di consumo erano sempre più alti e il mercato nero condizionava ogni commercio. Le industrie e i trasporti, inoltre, erano praticamente al collasso e, da qualche mese, i rifornimenti di petrolio erano stati interrotti a causa di un blocco marittimo internazionale.

Dopo la guerra, furono gli stessi americani a confermare che il Giappone nel ’45 era ormai prossimo alla capitolazione. Nella United States Strategic Bombing Survey redatta nel luglio del 1946 da esperti militari si legge che «sicuramente prima del 31 dicembre 1945 e con ogni probabilità prima del 1° novembre 1945 il Giappone si sarebbe arreso anche se non fossero stati lanciati gli ordigni atomici, anche se l’Unione Sovietica non fosse entrata in guerra (nel Pacifico, ndr) e anche se nessuna invasione fosse stata pianificata o contemplata». Con la capitolazione della Germania nazista l’8 maggio 1945, era chiaro a tutti che gli americani e i loro alleati avrebbero riversato tutta le loro forze sul Pacifico. Per questo, la diplomazia giapponese – incoraggiata dall’imperatore Hirohito in persona – lavorò per giungere quanto prima alla conclusione delle ostilità. Alla fine di giugno, fu tentata la carta della mediazione dell’Unione Sovietica, l’unica grande potenza rimasta fuori dai combattimenti nel Pacifico. Nonostante gli sforzi, però, i colloqui con Mosca non diedero i frutti sperati. L’intelligence americana, inoltre, avendo decifrato da tempo i codici militari giapponesi, intercettò molti messaggi segreti della diplomazia imperiale, dai quali traspariva molto chiaramente come Hirohito si stesse impegnando per arrivare alla pace. Tutto questo non fermò il presidente americano Harry Truman.

«La giustificazione ufficiale degli Stati Uniti fu che l’uso della bomba atomica avrebbe evitato il sacrificio di migliaia di soldati americani necessari per attuare uno sbarco sull’arcipelago nipponico», spiega Daniela De Palma, storica del Giappone contemporaneo. «Si pensava, infatti, che la popolazione giapponese avrebbe combattuto fino alla morte, com’era già accaduto nei quasi tre mesi di durissime battaglie a Okinawa. Gli attacchi nucleari furono invece una palese dimostrazione delle proprie capacità belliche indirizzata a Stalin», precisa l’esperta. «Del resto, la diplomazia giapponese, incautamente, si era rivolta proprio all’Unione Sovietica per intavolare trattative, ma i russi avevano la sola intenzione di dividersi le spoglie di una nazione già sconfitta. Infatti, attaccarono il Giappone (con un trattato di neutralità in vigore non ancora scaduto, sebbene avessero annunciato che non intendevano rinnovarlo) all’indomani della bomba su Hiroshima e continuarono a invadere e a impossessarsi dei territori nipponici ben oltre la firma ufficiale della resa incondizionata il 2 settembre».

Oggi molti storici sono concordi con questa versione dei fatti. Più controversa è la motivazione che spinse il Giappone a non accettare tempestivamente la resa incondizionata notificata il 26 luglio 1945 dagli americani e dai loro alleati (dichiarazione di Potsdam). L’ultimatum, sebbene molto esplicito nella sua risolutezza, non faceva alcun riferimento diretto all’imperatore e alla sua sorte, ma si limitava a puntare il dito contro coloro che «hanno ingannato e fuorviato il popolo del Giappone conducendolo alla conquista del mondo». Annunciava anche che sarebbe stata «applicata una severa giustizia a tutti i criminali di guerra». Probabilmente, i giapponesi pensarono che sul banco degli imputati sarebbe finito anche Hirohito, e lasciare un dio vivente – così era considerato all’epoca – nelle mani degli americani sarebbe stato impensabile.

Inoltre, quando il primo ministro giapponese, il barone Kantarō Suzuki, fu incalzato dai giornalisti sull’ultimatum americano, egli rispose con un “no comment” usando la parola mokusatsu, un’espressione piuttosto ambigua che, secondo il contesto e il tono di chi la pronuncia, può essere tradotta anche con “non merita risposta”. E proprio con questa sprezzante accezione fu interpretata la posizione formale del governo nipponico, il quale stava cercando di prendere tempo. Ironia della sorte, dopo la resa gli americani non solo non processarono l’imperatore, ma – molto saggiamente per garantirsi lo svolgimento pacifico dell’occupazione – gli attribuirono il ruolo di «simbolo dello Stato e dell’unità del suo popolo» (com’è scritto nel primo articolo della Costituzione del 1947), una funzione che se fosse stata esplicitata prima forse avrebbe fatto risparmiare molte vite umane.

 

Iwo Jima: missione impossibile
La difesa a oltranza dell’isola di Iwo Jima fu l’ultimo incarico della vita del generale giapponese Tadamichi Kuribayashi, ma fu anche una delle pagine più cruente della storia della seconda guerra mondiale. Una ventina di chilometri quadrati di terreno vulcanico, inospitale, senza vegetazione né acqua dolce, Iwo Jima era di straordinaria importanza per i bombardieri americani diretti verso le città giapponesi. Per questo l’isola fu trasformata in una roccaforte difensiva, sulla quale furono trasferiti circa 21.000 soldati imperiali sotto il comando del generale Kuribayashi, un militare intelligente e colto che aveva studiato e viaggiato negli Stati Uniti e in Canada. Consapevole delle formidabili capacità belliche degli americani e senza alcun supporto navale, Kuribayashi non si fece molte illusioni sul suo destino e su quello dei suoi uomini, ma l’ordine era resistere il più possibile, fino alla morte, e il generale ci riuscì oltre ogni aspettativa. Alle trincee sulle spiagge preferì una fitta rete di cunicoli sotterranei per una lunghezza complessiva di oltre 18 chilometri. Il suo piano era infliggere al nemico il maggior numero di perdite attraverso azioni di guerriglia. Il 19 febbraio 1945 – dopo tre giorni e tre notti di intensi bombardamenti sull’isola – gli americani sbarcarono nella parte meridionale, con circa 30.000 marine (ne sarebbero seguiti altri 40.000). Erano convinti di espugnare Iwo Jima in cinque giorni, ma l’assedio andò avanti per più di un mese. Il 17 marzo, ormai allo stremo, Kuribayashi inviò un ultimo messaggio all’imperatore elogiando il coraggio dei suoi soldati, ma esprimendo rammarico per aver dovuto combattere con scarse risorse. Iwo Jima cadde solo il 26 marzo e il sacrificio di vite umane fu enorme: 6.000 morti e 20.000 feriti americani, solo un migliaio i superstiti giapponesi.

L’imperatore enigmatico
La recente pubblicazione da parte dell’Agenzia della Casa Imperiale di 12 mila pagine sulla vita di Hirohito, l’imperatore che regnò il Giappone dal 1926 al 1989, non fa altro che confermare l’enigmaticità di questo personaggio. Ne esce il ritratto di un monarca timido e riservato, quasi rassegnato a subire gli eventi, subalterno a un’élite nazionalista e militarista che portò il Paese alla catastrofe. Nel 1941 fu contrario ad attaccare gli Stati Uniti, definendo l’azione su Pearl Harbor “temeraria” e fonte di un «conflitto di autodistruzione», ma pose ugualmente la sua firma sulla dichiarazione di guerra. Accettò di buon grado le conquiste giapponesi nel Pacifico, ma non disse nulla sulle atrocità commesse in suo nome dalle truppe imperiali a Nanchino e altrove. Dalla primavera del 1945 si adoperò molto per porre fine alla guerra, caldeggiando l’intermediazione dell’Unione Sovietica. Dopo la resa, Hirohito si assunse ogni responsabilità per gli eventi bellici, interpretando le sue funzioni sacerdotali di intercessione per il suo popolo. Di fronte al quale, però, dovette negare la sua origine divina, in un drammatico discorso radiofonico.

L’ultimo giapponese
Forse nessuno meglio di Hirō Onoda – scomparso a 91 anni nel gennaio del 2014 – ha incarnato lo spirito ostinato e l’assoluta lealtà verso i superiori che caratterizzarono i soldati giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Nel dicembre del 1944, il tenente Onoda fu assegnato alla difesa dell’isola di Lubang, nelle Filippine. Dopo lo sbarco degli americani, fu costretto a ripiegare nella giungla insieme a tre compagni, con l’ordine di resistere e continuare a combattere in nome dell’imperatore. Quando il Giappone accettò la resa incondizionata, i quattro proseguirono la guerra per anni. Fu nel 1974 che Onoda, rimasto da solo nella giungla dopo la morte dei suoi commilitoni, indossò l’uniforme, consegnò le armi e accettò di arrendersi. Ma solo alla presenza del suo vecchio maggiore, lo stesso che 39 anni prima gli aveva ordinato di resistere.

Gli effetti delle due atomiche
La bomba sganciata su Hiroshima (“Little boy”) sprigionò un’energia pari a 16.000 tonnellate di tritolo, distruggendo qualsiasi cosa nel raggio di un chilometro e mezzo, e scatenando una spaventosa bufera rovente che diede alle fiamme un’area di quasi 12 chilometri quadrati. Dopo una ventina di minuti dallo scoppio, iniziò a cadere una “pioggia nera” radioattiva che contaminò una vasta porzione della città. Circa il 90% degli edifici fu sbriciolato o gravemente danneggiato, mentre al momento dell’esplosione morirono tra le 70.000 e le 80.000 persone (quasi tutti civili), molte delle quali furono letteralmente incenerite dalle altissime temperature. Anche il numero dei primi feriti fu altissimo, soprattutto con gravi ustioni, ma la situazione era destinata a peggiorare nei mesi successivi: stime recenti parlano di un minimo di 90.000 morti complessivi fino a un massimo di 166.000.
L’ordigno atomico sganciato su Nagasaki (“Fat man”), invece, uccise all’istante circa 40.000 persone e ne ferì almeno 50.000. Anche in questo caso il numero dei morti aumentò col passare del tempo e alla fine del 1945 le vittime totali furono tra le 60.000 e le 80.000.