Giappone al bivio

di Fabio Massi

Tokyo lo scorso agosto ha riavviato la centrale di Sendai, mettendo fine al blocco deciso all’indomani del disastro di Fukushima. Ma la gran parte dei giapponesi è ormai contraria al nucleare. E il mercato delle rinnovabili continua a crescere.

Neanche il tempo di asciugarsi le lacrime per le toccanti testimonianze degli hibakusha, i superstiti, durante le cerimonie del settantesimo anniversario delle bombe atomiche americane che il Giappone è ripartito con la produzione di energia nucleare. Due mesi fa – lo scorso 11 agosto, a 48 ore dalla commemorazione di Nagasaki – l’azienda Kyushu electric power ha riavviato il reattore numero 1 della centrale di Sendai, situata a un migliaio di chilometri a sudovest di Tokyo, mettendo fine al blocco nazionale deciso all’indomani del disastro di Fukushima nel marzo di quattro anni fa.

Falsi miti

«La riattivazione degli impianti nucleari che superano i nuovi standard di sicurezza dell’Autorità di regolamentazione nucleare (Nra) – ha dichiarato Yoshihide Suga, segretario generale del governo, nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’evento – è molto importante per le nostre politiche energetiche, che considerano il nucleare una fonte chiave per la generazione di energia elettrica». Piena soddisfazione, e non poteva essere altrimenti, da parte della lobby degli industriali, ferventi sostenitori del primo ministro Shinzō Abe e del suo esecutivo. «È stato compiuto il primo passo verso la ripresa – ha commentato Sadayuki Sakakibara, presidente della Confindustria giapponese (Keidanren) – ed è un grande passo. Confidiamo nei continui sforzi di quanti sono impegnati nella riattivazione di altri impianti nucleari». Fuori dai cancelli della centrale di Sendai, però, l’atmosfera è stata tutt’altro che euforica. Centinaia di attivisti e residenti, infatti, hanno gridato il loro “no” alla riapertura dell’impianto e, più in generale, alla scelta del governo di tornare a puntare sull’energia nucleare. Ad allarmare ancora di più i contestatori ci si è messo anche il vulcano di Sakurajima, distante appena una cinquantina di chilometri dalla centrale, che ha ricominciato a dare segni di intensa attività. Tra i manifestanti c’era anche Naoto Kan, l’ex primo ministro in carica al tempo del disastro di Fukushima, che da allora è diventato un convinto oppositore all’energia dall’atomo. «Non abbiamo bisogno di impianti nucleari – ha gridato Kan alla folla – il mito delle centrali sicure ed economiche è stato spazzato via con Fukushima: per quale motivo stiamo facendo ripartire il nucleare?».

Dopo Fukushima

La risposta è sotto gli occhi di tutti. Abe e il suo governo stanno cercando da tempo di rimettere in moto quante più centrali nucleari possibili con un duplice obiettivo: ridurre la costosissima dipendenza del paese dalle importazioni di petrolio, gas e carbone – aumentate in maniera esponenziale dopo il momentaneo abbandono del nucleare – e alleviare alle utility elettriche il peso finanziario causato dal mantenimento di oltre 50 reattori inattivi. Prima del 2011 la fonte nucleare forniva circa il 30% del fabbisogno energetico nazionale, il 61% proveniva da combustibili fossili (gas naturale 29%, carbone 25% e petrolio 7%), l’energia idroelettrica contribuiva per l’8%, mentre le altre risorse rinnovabili – solare, eolico, biomasse e geotermia – non andavano oltre l’1%. Il governo, poi, stava pianificando di portare il nucleare sopra al 50% entro il 2030 attraverso la realizzazione di 14 nuovi reattori, due dei quali attualmente in costruzione. Il grande terremoto e lo tsunami, che hanno causato quasi 16mila vittime nel 2011, hanno cambiato tutto. Dopo il disastro di Fukushima, che ha costretto oltre 160mila persone a lasciare le proprie case, il mix energetico del paese si è radicalmente alterato. Con la decisione di spegnere tutti i reattori nucleari – solo un paio sono stati riattivati per un anno, poi di nuovo messi in letargo – il contributo al fabbisogno energetico nazionale derivato dai combustibili fossili si è impennato al 90%, concorrendo a procurare al Giappone quattro anni di deficit commerciale, col record negativo toccato lo scorso anno di 12.800 miliardi di yen (più di 92,5 miliardi di euro). Le bollette elettriche domestiche, inoltre, sono aumentate a un tasso medio annuo del 13,7%.

Il bluff delle cifre

«Il cambiamento più grande che si è verificato in Giappone dopo la tragedia di Fukushima – racconta a La Nuova Ecologia Rikiya Adachi, portavoce dell’ufficio internazionale del Partito giapponese dei verdi (Midori no Tō Greens Japan) – è la consapevolezza della gente riguardo all’energia nucleare. In passato molti di noi non ci pensavano, ma oggi quasi tutti conoscono pro e contro delle centrali e la maggioranza delle persone pensa che non dovremmo far ripartire le attività». I promotori del nucleare, però, affermano che i costi per produrre elettricità sono cresciuti a causa della maggiore necessità di combustibili fossili, così come le emissioni di CO2. «È un’affermazione ingannevole – obietta il portavoce dei verdi – poiché l’aumento dei costi dei combustibili fossili è dovuto principalmente alla svalutazione dello yen. In termini di emissioni, è ovvio che dipendere dai combustibili fossili per produrre energia elettrica non è una cosa molto positiva. Oggi, però, il mercato delle rinnovabili sta crescendo velocemente, anche se le compagnie elettriche sono piuttosto contrarie a causa degli “elevati costi” – continua Adachi – ma anche questo è un falso problema. Il governo, in realtà, elargisce ingenti finanziamenti agli impianti nucleari attraverso le nostre tasse, perciò per le utility si tratta di un affare tutto sommato vantaggioso in termini economici. Se invece consideriamo correttamente tutti i costi (smaltimento delle scorie, dismissione degli impianti, eventuali incidenti), scopriamo che le rinnovabili sono molto più economiche. È l’inganno della politica energetica del governo. Abe, piuttosto, dovrebbe concedere tanti finanziamenti alle energie rinnovabili, almeno quanti ne assegna al nucleare». In vista dell’imminente Cop di Parigi sul clima, il governo di Tokyo ha dichiarato di voler tagliare entro il 2030 le emissioni di gas serra del 26% rispetto ai livelli del 2013, un impegno giudicato poco ambizioso da molti analisti. «L’obiettivo del taglio delle emissioni dell’amministrazione Abe è molto basso – conclude Adachi – noi insistiamo che dovremmo ridurre le emissioni di gas serra del 20% entro il 2020 e fino all’80% entro il 2050».

Superare i monopoli

Modesto o meno, il target ambientale del Giappone dovrà necessariamente passare anche dalle fonti rinnovabili. Lo scorso giugno il ministero dell’Economia, del commercio e dell’industria (Meti) – alla luce delle linee guide del IV piano energetico nazionale, approvate dal governo nell’aprile 2014 – ha reso noto lo scenario ottimale del mix energetico al 2030. Il ricorso alle fonti fossili dovrebbe calare fino al 56% (gas 27%, carbone 26%, petrolio 4%), mentre l’energia nucleare dovrebbe tornare a crescere fino al 20-22%. Le fonti rinnovabili, invece, da un attuale contributo del 10,7% dovrebbero salire al 22-24%. Tra le energie pulite su cui il Giappone sta puntando c’è soprattutto il fotovoltaico, che negli ultimi due anni ha fatto registrare un boom di progetti, alcuni anche ambiziosi, come quello che entrerà in funzione nel 2019 nella città di Setouchi, 165 chilometri a ovest di Osaka. Sarà il parco fotovoltaico più grande del paese: 260 ettari di pannelli fotovoltaici ad alta efficienza con una capacità produttiva di 231 MW. Più in generale, sono centinaia le aziende, anche piccole, che stanno investendo nel fotovoltaico e nelle altre rinnovabili con l’obiettivo di inserirsi nel mercato energetico nazionale. Ma non sarà affatto semplice. Anche se nel 2016 entrerà in vigore la prima fase della riforma per la liberalizzazione del settore, infatti, queste matricole dovranno fare i conti con le dieci utility che dal dopoguerra detengono il monopolio dell’intera filiera energetica (generazione, trasmissione e distribuzione), ciascuna nella propria regione di attività.

Tutti contro Abe

«Da quando è salita al potere alla fine del 2012, l’amministrazione Abe ha fatto subito vedere un “rigurgito” del nucleare e delle vecchie politiche energetiche: questo esecutivo è fortemente sostenuto dal monopolio delle utility – spiega Tetsunari Iida, direttore esecutivo dell’Istituto per le politiche energetiche sostenibili (Isep), ente giapponese di ricerca indipendente e no profit – Il recente riavvio della centrale di Sendai è il simbolo della sconsideratezza e del processo antidemocratico di questo governo. Guardando la storia, un simile “rigurgito” s’è appalesato molte volte, sia dentro che fuori dal Giappone, durante i periodi di transizione da un vecchio a un nuovo modello. La politica nucleare, energetica e climatica del nostro paese è nel pieno caos, ma sono fermamente convinto che questo “rigurgito” sarà superato prima o poi, allora potremo tornare a essere più razionali, aperti a scelte politiche più democratiche, condivise da una vasta platea di persone». Oggi la maggioranza dei giapponesi si oppone al nucleare: da un sondaggio realizzato lo scorso luglio dall’agenzia di stampa Kyodo News è emerso che il 56% degli intervistati è contrario alla riattivazione della centrale di Sendai, mentre poco meno del 35% si è pronunciato a favore. La questione del riavvio del nucleare, insieme alla modifica della Costituzione che consente alle forze armate giapponesi di intervenire fuori dai confini nazionali, anche senza un attacco diretto al paese, è tra i principali fattori che hanno fatto crollare l’indice di gradimento del premier Abe e del suo esecutivo al 32%, il punto più basso dalla sua elezione.
Non sono mancate negli ultimi anni grandi manifestazioni popolari contro l’operato del governo, né azioni eclatanti. Come quella dello scorso aprile, quando un attivista – poi arrestato – ha fatto atterrare sul tetto dell’ufficio del primo ministro a Tokyo un piccolo drone che trasportava una manciata di sabbia radioattiva proveniente dalla zona di Fukushima. Anche diversi esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo nipponico si sono schierati contro il ritorno al nucleare. Il maestro dell’animazione Hayao Miyazaki, ad esempio, autore di splendidi film pacifisti ed ecologisti, ha fatto appendere uno striscione fuori dalla sua casa di produzione con la scritta: «Lo Studio Ghibli vuole realizzare film con elettricità che non proviene dall’energia nucleare». Qualche mese fa, inoltre, ha devoluto 300 milioni di yen (oltre 2,2 milioni di euro) alla città di Kumejima, nell’isola di Okinawa, per la realizzazione di un grande parco interattivo che accoglierà bambini e famiglie sfollate dalle aree colpite dal disastro nucleare. Lo scrittore di fama mondiale Haruki Murakami, invece, in occasione di un premio letterario a Barcellona ha detto che Fukushima è stata «una guerra nucleare senza una guerra. Questa volta nessuno ha sganciato bombe atomiche, siamo stati noi ad aver commesso il crimine con le nostre mani, stiamo distruggendo le nostre terre e le nostre vite».

BOX: Disastri ambientali e malattie
Quello di Fukushima non è stato l’unico incidente nucleare che si è verificato nell’arcipelago giapponese, e nemmeno il primo disastro ambientale. Tra le catastrofi più gravi, ce ne sono alcune accadute nel secolo scorso che, oltre ai pesanti danni all’ecosistema, hanno generato specifiche malattie da contaminazione.
Nel 1912, nella prefettura di Toyama, le attività estrattive della Mitsui Mining nelle miniere della zona inquinarono con il cadmio il fiume Jinzu e i suoi affluenti, utilizzati dagli abitanti per irrigare i campi. Si verificò un avvelenamento di massa che causò indebolimento e fragilità delle ossa in moltissime persone, una sindrome che venne chiamata “itai-itai” (“doloroso” in giapponese).
Nel 1956, molti abitanti della città di Minamata accusarono pesanti problemi al sistema nervoso centrale. Si scoprì, in seguito, che l’industria chimica Chisso per anni aveva rilasciato nelle acque della baia grandi quantitativi di metilmercurio, avvelenando pesci, molluschi e crostacei. Lo stesso tipo di patologia – chiamata proprio malattia di Minamata – fu riscontrata anche nel 1968 tra molti residenti della città di Niigata: un’altra industria chimica, la Showa Denko, aveva sversato grandi quantità di metilmercurio nelle acque del fiume Agano.
Nel 1961, nella città di Yokkaichi l’aria fu pesantemente inquinata dal biossido di zolfo emesso dalla combustione di greggio nel locale complesso petrolchimico. Gli abitanti soffrirono di gravi disturbi all’apparato respiratorio, noti come “asma di Yokkaichi”.

 

[articolo originale su «La nuova ecologia»]