Dall’India al Giappone passando per Cina e Corea: nell’800 il fotogiornalista italiano Felice Beato raccontò la bellezza di un mondo sconosciuto e le atrocità delle guerre che lo dilaniavano.
Quasi cento anni prima che i leggendari scatti di Robert Capa documentassero la quotidianità della Seconda guerra mondiale, un fotografo anglo-italiano dal nome curioso e dal talento straordinari raccontò con il suo sguardo importanti eventi bellici e mondi lontanissimi dalla cultura europea del XIX secolo. Si chiamava Felice Beato (1832-1909) ed è stato uno dei pionieri del fotogiornalismo che, con il suo lavoro, ha innovato un’arte ancora agli albori, creando uno stile inconfondibile.
Iniziò la sua carriera di fotografo poco più che ventenne, dopo aver conosciuto l’incisore britannico James Robertson, che aveva avviato uno dei primi studi fotografici commerciali a Costantinopoli (oggi Istanbul). Si misero insieme in affari e si dedicarono soprattutto a ritrarre le splendide architetture della capitale turca, firmando le fotografie con “Robertson & Beato”.
Nel 1855, la prima grande occasione: seguire le ultime fasi della Guerra di Crimea. Il fotografo ufficiale dell’armata britannica Roger Fenton, infatti, era stato costretto dal colera a tornare in patria: i due soci si recarono a Balaclava e documentarono la caduta di Sebastopoli in una sessantina di scatti piuttosto essenziali in termini di tecnica fotografica, ma allo stesso tempo rivoluzionari.
Non si erano soffermati sulla rassicurante quiete degli accampamenti del proprio esercito o sulla fierezza ostentata di qualche ufficiale in posa, l’obiettivo dei fotografi si era invece posato sulla desolazione degli avamposti abbandonati dal nemico e sulle macerie delle fortificazioni distrutte dalle cannonate: le immagini comunicavano il potere distruttivo della guerra.
Ampliando gli orizzonti. Dopo aver realizzato alcune spettacolari panoramiche cittadine a Malta, in Grecia e a Gerusalemme, nel 1858 Felice Beato viaggiò nell’India del Nord per raccontare le conseguenze del cosiddetto “ammutinamento indiano” (o Prima guerra d’indipendenza indiana) avvenuto nei mesi precedenti contro le forze coloniali britanniche. Fu per lui l’occasione di allargare i confini della sua fotografia, comunicando gli eventi in maniera più emotiva attraverso la “costruzione” di immagini basate su elementi reali: per rappresentare con drammaticità i resti del palazzo di Secundra Bagh nella città di Lucknow, in cui erano stati massacrati 2mila ribelli, fece riesumare e sistemare sulla scena i teschi e i resti scheletrici degli indiani uccisi.
Lo stesso approccio “teatrale” lo ritroviamo un paio di anni più tardi, nell’estate del 1860 quando, lasciata la collaborazione con Robertson, fu inviato in Cina per seguire la spedizione militare anglo-francese durante la Seconda guerra dell’oppio. In questo ruolo che oggi diremmo di fotogiornalista embedded, cioè al seguito di un esercito, Felice Beato documentò l’intero svolgimento della conquista del forte di Taku, che avrebbe spianato la strada verso Pechino alla coalizione europea.
Il risultato è un reportage di guerra straordinario: le fotografie, che in realtà furono scattate con una sequenza poco fedele al corso degli eventi, ci mostrano per la prima volta cadaveri umani in un campo di battaglia, anche se soltanto di soldati cinesi, forse sistemati con abilità scenica. Fatto sta che una volta tornato in Inghilterra, Felice Beato riuscì a vendere i suoi servizi fotografici realizzati in India e in Cina a cifre altissime.
Colpo d’occhio. Alcune di queste immagini hanno anche un grande valore documentale, come quella che scattò appena fuori Pechino all’antico Palazzo d’Estate imperiale, poco prima che fosse incendiato e quasi interamente distrutto dagli inglesi. Oppure la foto panoramica della capitale cinese, lunga quasi 170 cm, composta da sei singole immagini unite tra loro e prese dalla porta meridionale della città proibita.
Utilizzò la stessa tecnica panoramica qualche anno più tardi per fotografare lo skyline di Edo (l’odierna Tokyo). Dal 1863, infatti, Felice Beato si era trasferito in Giappone, nella città portuale di Yokohama, che in quel periodo pullulava di navi commerciali e viaggiatori provenienti dall’Europa e dall’America. Il Paese nipponico, dopo oltre due secoli di completo isolamento dal mondo esterno, proprio in quegli anni si stava aprendo all’Occidente alimentando nel Vecchio continente il gusto per l’esotismo che era di gran moda tra gli intellettuali e la borghesia.
I primi colori. Felice Beato comprese le potenzialità offerte da quel mondo antico così affascinante e misterioso che, tuttavia, sarebbe velocemente scomparso. Insieme all’artista e vignettista inglese Charles Wirgman, conosciuto durante i reportage di guerra in Cina, aprì lo studio fotografico “Beato & Wirgman, Artists and Photographers”, dando vita a una forma d’arte originale e redditizia, che mescolava la modernità del mezzo fotografico con la tradizione delle grafiche giapponesi: la cosiddetta “Yokohama Shashin” (shashin in giapponese significa “fotografia”) o “Scuola di Yokohama”.
Attraverso questo stile, Felice Beato e il suo socio realizzarono moltissime stampe su carta all’albumina delicatamente colorate a mano ad acquerello, una a una. I soggetti erano gli splendidi paesaggi naturali e le architetture del Giappone, ma soprattutto i ritratti a figura intera di persone e le scene di vita quotidiana riprodotte in studio: donne che fanno il bagno, venditori ambulanti, carpentieri all’opera, musicisti di strada, samurai con l’armatura, stallieri, lottatori di sumo.
Come una poesia. La sua intuizione fu vincente e i suoi lavori ebbero un successo commerciale strepitoso, a dimostrazione della sua straordinaria capacità di sperimentare e innovare. Anche per questo, prendendo in prestito le parole dello lo storico della fotografia Italo Zannier, Felice Beato è stato un «audace e trasgressivo fotografo di “guerra” e sublime documentatore dei costumi e del paesaggio giapponese, ch’egli ha visualizzato con un delicato realismo, che oggi definiremmo “lirico”».