I punti critici del Waste management

di Fabio Massi

Una fase di transizione per il sistema nazionale della raccolta che richiede un piano strategico in vista degli obiettivi europei per il 2030.

Casi di eccellenza da una parte e situazioni ancora totalmente inadeguate dall’altra. Sono le due facce del settore italiano della gestione dei rifiuti, che oggi sta attraversando una fase delicata di transizione caratterizzata sia dall’aumento dei player industriali sia dal persistere di criticità nel quadro normativo e di governance. A tracciare il profilo di questo comparto è il “Waste strategy annual report 2017”, elaborato da Althesys, il cui obiettivo è disegnare le linee guida di una strategia nazionale per i rifiuti fino al 2030 in vista dei nuovi obiettivi europei. Secondo il rapporto, nel 2016 il valore della produzione generato dai cento maggiori operatori della raccolta dei rifiuti urbani – sia pubblici sia privati – ammonta a quasi 7,4 miliardi di euro, con una crescita del 3,8% rispetto all’anno precedente.

Se si considerano anche le attività del segmento a valle della raccolta, cioè la selezione e la valorizzazione dei rifiuti, il valore prodotto dall’intero settore sfiora i 10 miliardi di euro. Più nel dettaglio, i cento maggiori operatori mappati dall’indagine operano in più di 3.500 comuni italiani (44,3% del totale), servono quasi 38 milioni di abitanti (62,4% della popolazione complessiva) e raccolgono 19,3 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, pari al 64,2% della produzione nazionale. Queste aziende presentano notevoli differenze tra loro, sia in termini di dimensioni sia di servizi offerti. Le grandi multiutility, ad esempio, attive lungo tutta la filiera, pur costituendo la categoria meno numerosa con soli tre operatori, hanno generato il 31,3% dell’intero valore della produzione (2.322 milioni di euro), hanno raccolto quasi un quarto dei rifiuti urbani (4,5 milioni di tonnellate) e servito oltre il 21% della popolazione. Gli operatori metropolitani, invece, costituiti da sette aziende pubbliche di igiene urbana di grandi città, hanno prodotto ricavi per poco più di 1,6 miliardi di euro (21,7% del totale), servendo un bacino di 6,6 milioni di abitanti e gestendo quasi un quinto dei rifiuti complessivamente raccolti (3,7 milioni di tonnellate).

Poi c’è il gruppo più numeroso, le piccole e medie monoutility che costituiscono la metà del campione: queste aziende hanno generato un valore di quasi 1,6 miliardi di euro (21,4% del totale). Più contenuto il contributo delle piccole e medie multiutility, concentrato quasi esclusivamente nel Centro-Nord del Paese, che hanno prodotto ricavi per 781 milioni di euro (10,6%) e una raccolta di 2,3 milioni di tonnellate pari a circa il 12% della quantità complessiva. Infine, ci sono i 19 operatori privati, costituiti da alcuni grandi gruppi del waste management che operano su tutto il territorio nazionale e da piccole realtà attive in prevalenza nel Meridione: complessivamente hanno raccolto 4,2 milioni di tonnellate di rifiuti (21,8%) e generato un valore di circa 1,1 miliardi di euro (14,7%). Nel 2016 i cento maggiori player della raccolta hanno investito poco meno di 350 milioni di euro nella filiera ambientale, con un aumento del 10% rispetto all’anno precedente. Quasi la metà degli investimenti è stata effettuata dalle tre grandi multiutility, che hanno incrementato la loro quota rispetto all’anno precedente (dal 39,5% al 47,5%), mentre gli operatori metropolitani hanno fatto registrare il calo maggiore, passando dal 16,9% del 2015 al 10,4% del 2016. Si accentua anche lo squilibrio in termini territoriali, poiché il 71,5% degli investimenti è stato appannaggio delle regioni del Nord (era il 66,2% nel 2015), il Centro ha evidenziato un netto calo (dal 22% al 15%), le regioni meridionali sono rimaste sostanzialmente stabili (circa il 5%), mentre è in aumento la parte delle aziende private che operano su tutto il territorio nazionale (dal 6,7% all’8,4%). Sempre riguardo agli investimenti, è interessante notare che se le grandi multiutility hanno destinato il 65,1% delle loro somme all’adeguamento degli impianti, la quota degli operatori metropolitani crolla al 17,3%.

Discorso analogo per l’indicatore pro capite: i primi hanno investito 18,9 euro per abitante, gli altri soltanto 6,3 euro. Il rapporto di Althesys ha preso in esame anche i principali player attivi nella fase a valle della raccolta dei rifiuti, un segmento piuttosto frammentato e disomogeneo, ma che sta assumendo un ruolo sempre più strategico nel nostro Paese a fronte di politiche ambientali improntate all’economia circolare. Si tratta di aziende molto differenti tra loro sia per distribuzione geografica sia per la tipologia dei materiali trattati. Nel complesso sono state censite 114 imprese che hanno fatturato nel 2016 quasi 2,2 miliardi di euro, con una media per azienda di 19,1 milioni di euro e solamente il 6,1% ha superato i 50 milioni di euro. Sono perciò operatori soprattutto di piccole e medie dimensioni, la maggior parte dei quali è attiva nel Settentrione (59%), il 24% al Centro e il 17% al Sud. Un’azienda su dieci si occupa esclusivamente di rifiuti speciali, il 28% di quelli urbani, mentre il 61% gestisce entrambe le tipologie. In termini di materiali gestiti, il 15% degli operatori si focalizza su una sola tipologia (carta, plastica o vetro), circa l’11% su due (principalmente carta e plastica o plastica e metalli), mentre tre su quattro trattano più materiali. L’indagine ha anche analizzato brevemente il settore del waste management di tre importanti nazioni europee, Francia, Regno Unito e Germania, che insieme producono quasi la metà dei rifiuti urbani continentali. Pur nelle loro diverse peculiarità in termini di gestione, quadro normativo, governance e struttura industriale del comparto, i tre Paesi evidenziano un sostanziale equilibrio tra regolazione e mercato, che invece manca all’Italia.

«Il settore italiano della gestione di rifiuti si è trasformato molto negli ultimi anni – afferma Alessandro Marangoni, amministratore delegato di Althesys – nel 2016 è stato uno dei pochi comparti industriali a mostrare una crescita del giro d’affari e uno sviluppo degli operatori in termini di dimensione. In questo quadro, però, rimangono alcuni elementi critici di debolezza: c’è un problema di stabilità e uniformità normativa nel Paese, c’è una carenza di infrastrutture per quanto riguarda la capacità di smaltimento dei rifiuti, questa concentrata soprattutto al Centro-Nord, mentre al Sud si registrano molte più difficoltà. Tale situazione pone una serie di interrogativi rispetto agli obiettivi che la “circular economy” dell’Unione europea ci pone in vista del 2030».
Il cosiddetto “Pacchetto economia circolare”, infatti, la cui approvazione definitiva potrebbe arrivare a breve dal Consiglio europeo, fissa alcuni paletti per stimolare una crescita economica a livello comunitario utilizzando le risorse in modo più sostenibile. A cominciare dal riciclo: entro il 2030 si dovrà raggiungere la quota del 65% dei rifiuti urbani e del 70% dei rifiuti di imballaggio, oltre a ridurre al massimo al 10% il collocamento in discarica per tutti i rifiuti.

[continua su «Largo Consumo»]